Riapparso un fagiano a New York

Nelle giornate dell’11-12-13 novembre 2022, si  è tenuto a New York presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò (in collaborazione con New York University  e Istituto Italiano di Cultura) un incontro tra poeti italiani e statunitensi. L’incontro,  ideato da Luigi Ballerini, recava il titolo The Re-appearing Pheasant.
Cosa c’entra un fagiano con la poesia? Proviene dagli Adagia di Wallace Stevens: «Poetry is a pheasant disappearing in the brush». Già nel 1991 Ballerini si era ispirato a quell’aforisma per invitare al dibattito autori delle due sponde dell’Oceano: nell’occasione  la discussione trovò il suo fulcro attorno al termine “avanguardia” (forse era proprio lei il fagiano che stava sparendo tra i cespugli?). A distanza di una trentina d’anni, Ballerini ha rinnovato la proposta del colloquio inter-continentale invertendo però il suo titolo: The Re-appearing Pheasant. Insomma, il fagiano che riappare sarà un qualche nuovo segnale o sintomo di vitalità in versi? L’interrogativo è stato valutato nel corso del confronto che ha previsto letture di testi con traduzione, relazioni e tavole rotonde. Segnalo anche la conclusione, ieri 13 novembre, con il concerto di Diego Minciacchi.

Qui di seguito inserisco l’intervento che ho letto alla tavola rotonda sul tema Research Poetry?

RICERCA E COMPLESSITÀ

Negli ultimi tempi si sono verificate in Italia, nel campo della poesia, alcune iniziative che, avviate separatamente l’una dall’altra, sembrano possedere punti di convergenza. Carmine Lubrano ha riunito alcuni rappresentanti della Terza Ondata in un fascicolo di “Terra del Fuoco” intitolato all’Avanguardia permanente e vari testi di quegli autori stanno per essere pubblicati dall’editore D’Ambrosio; Marco Giovenale ha aperto un dibattito sulla “scrittura di ricerca”, a partire da un saggio sul “verri” e poi con vari interventi raccolti nel suo sito slowforward.net, e soprattutto con un incontro molto affollato a Roma, seguito da ulteriori contributi; Daniele Poletti con Diaforia prepara un’antologia che contiene anche autori piuttosto giovani, sotto il titolo Continuo. Repertorio di scrittura complessa. Niente di che, non basta ancora a “fare notizia”, tuttavia colpisce la trasversalità intergenerazionale di questi progetti (gli anziani, i maturi, gli emergenti). E ancor di più colpisce che – mentre la poesia sembrava ormai fatta di insorgenze individuali (e dei relativi narcisismi) – sia sorta una esigenza di raccordo collettivo, una inaspettata insiemità. Sarà stato a causa della fine dell’isolamento per la pandemia, ma si nota una strana voglia di vedersi e di discutere insieme…
Qualcuno potrebbe malignamente insinuare che si tratta solo di una richiesta di attenzione da parte di autori che si sentono trascurati e non valutati, confusi nella massa. Ma, se così fosse, le rimostranze sarebbero prettamente individuali. Scegliere la discussione è comunque un indice di consapevolezza più ampia. Evidentemente gli intervenuti non intendono giustificarsi con l’ispirazione che “soffia dove vuole lei”, ma sentono il bisogno di trovare motivazioni condivise e ragionate. Ora, per discutere è necessario un terreno d’intesa ed è necessario un linguaggio. La poetica singola, anche se è già un primo passo, finirebbe per non relazionarsi. Occorre il richiamo in servizio della teoria, un discorso in Italia sempre tenuto ai margini, come se rovinasse con i suoi intellettualismi la “purezza” della poesia.
Vorrei sottolineare per l’appunto i termini teorici messi centro in queste iniziative recenti, perché sono assai interessanti.
Sull’avanguardia permanente non mi dilungo qui (rimando al saggio che ho dato poco tempo fa a “Terra del Fuoco”): è uno spunto paradossale tendente a liberare la nozione di avanguardia dal determinismo delle fasi storiche, e con ciò dagli organigrammi e dalle patenti dei movimenti ufficiali. L’avanguardia continua dopo tutte le sue fini, la sua eredità è sempre disponibile (proprio perché è l’imperativo a fare diversamente) e sta nelle scelte di ciascuno di noi.
Qualcosa di più dirò dei termini relativamente nuovi di “ricerca” e “complessità”.
Ricerca: questo termine possiede un’evidente sfumatura scientifica che lo ricollega alla stagione dello sperimentalismo e fa da utile contrappeso a un lirismo esclusivamente sentimentale. Aggiungere alla poesia la ricerca significa marcare un forte carattere distintivo, necessario a combattere la confusione in una vaga nozione di Poesia che comprende cose diversissime (dalle pretese visionarie alle ingenuità diaristiche), tranne l’alternativa. Qui entra in campo anche la necessità di un calibrato esercizio critico: infatti per separare una scrittura di ricerca da una non di ricerca occorre seguire alcune procedure, stabilire alcuni criteri, riferirsi dialetticamente a un metodo. Ecco un punto su cui il dibattito potrebbe svilupparsi: quale critica per quale ricerca?
Venendo poi alla complessità, questo termine in primo luogo indica una distanza tra significato e senso. Quindi fa da contrappeso alla comunicazione semplificata, fondata sull’immediatezza (anche per una ragione commerciale: la letteratura ridotta a instant-text). Posso subito immaginare le obiezioni: quelle dell’autore che vuole esprimersi e condividere la propria interiorità, per cui non si giova di troppi giri di parole; e quelle del pubblico che vuole ottenere il premio di un buon “contenuto” dal tempo impiegato per capire leggendo. Nel quadro di una letteratura intesa come intrattenimento legato al tempo libero, queste obiezioni sono plausibili: la lettura non sopporta di essere anch’essa un lavoro! Tuttavia, non c’è bisogno di troppa filosofia o psicoanalisi per accorgersi della fallacia espressiva. Il linguaggio con cui l’autore pensa di esprimere se stesso – e tanto più se è un linguaggio semplificato, ridotto – è un prodotto sociale. Le parole sono già state dette, grondano di “senso comune”. L’unica possibilità di renderle soggettive è di rielaborarle. E radicalmente. Si può dire allora che l’unica autenticità sta nella lotta con le parole. O meglio nell’introdursi di un discorso individuale mirato dentro un conflitto, dentro un campo di forze eterogeneo. Dove è inevitabile che nasca la complessità.
Ritengo necessario porre la differenza tra trasmissione e comunicazione. La trasmissione è il già noto, ciò che viene recepito rapidamente sulla scorta dell’abitudine. La comunicazione è mettere qualcosa in comune, un ordigno verbale, problematico sia per chi lo ha fatto che per chi lo riceve.
La trasmissione garantisce l’appropriazione, e così rafforza la proprietà privata del linguaggio, ovvero la solidità dell’identità. La comunicazione, invece, avvia il percorso di una ricerca (la ricerca di una chiave interpretativa, di un codice linguistico, ecc.). Ricerca e apertura: sarebbe meglio non dirne di più per non pregiudicarne gli esiti e so bene che la teoria con le sue parole d’ordine in passato è stata sentita dagli autori come invadente e troppo imperativa. Per giunta, le specificazioni andrebbero soprattutto lasciate agli autori più giovani: adesso tocca a loro “fare movimento”.
E però la formula non può rimanere vuota, pena la sua dissoluzione. Infatti, a chi si nega una ricerca se rimanesse nel vago della buona volontà? E poi: la poesia di ricerca non è altro che la poesia fatta bene? (Allora saremmo ancora nell’ambito di un’estetica che cerca di stabilire un’asticella per escludere la zavorra del dilettantismo). Oppure è un modo per dire: facciamo altro?
A me pare che ricerca suggerisca il superamento dei limiti: e allora plurilinguismo (superamento del linguaggio proprio), prosaicità (superamento dei generi), incongruità semantica (superamento dell’isotopia), interferenza e interruzione (superamento dell’unità). Per non essere riassorbiti nella confusione occorre un cambio di campo. Se continuiamo a pensare alla poesia in termini di reazione individuale, fatto privato, empatia, vibrazioni impalpabili e indescrivibili altrimenti, comunque rapporto intuitivo con la parola, non potremo sfuggire all’abbraccio con tutta quella produzione che vi si riferisce in modo sommario e senza discernimento. Si riapre, allora, la questione benjaminiana della tendenza, non solo della qualità. Personalmente uso questo motto: fare di ogni estetica una semiotica, per poi valutare su quel terreno la strategia e il posizionamento ideologico.
Infine, a proposito dell’impegno. Sono sempre meno propenso alla supplenza della politica. Ci sono “tempi bui” in Italia, in Europa, nel mondo; tuttavia la battaglia politica va portata avanti con l’urgenza necessaria in quanto cittadini nelle associazioni e nelle manifestazioni a ciò preposte. La responsabilità della scrittura creativa non si può esaurire in un intervento al servizio della cronaca (lo diceva già Vittorini nella vecchia diatriba su “Politecnico”, e vale ancora). L’impegno ci dev’essere, ma – a mio parere – dev’essere un impegno sul “fondo”. Disinvestire, distogliere, se è mai possibile: operare scorporazioni (invece che incorporazioni) e disattrattori (invece di attrattori). La diversione di Benjamin. Non voglio ipotecare nessun esito: chiedo solo al dibattito di rispondere a una esigenza di radicalità.
Sta di fatto che, al punto di degrado in cui siamo arrivati, comunque lo si voglia mettere, la ricerca è un compito molto difficile e complesso: ma questi, ricerca e complessità, sono per me i termini giusti della questione da porre.

14/11/2022

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