Già nell’agosto 2021 “Critica integrale” – che in quel mese faceva vacanza e però intanto intratteneva i suoi lettori con qualche bubbola – aveva presentato alcune traduzioni del Joking Joyce, il Joyce poeta giocoso (la più visionata è stata La terra desolata dalle zanzare). Bene, quella proposta era solo un piccola scelta da un mio progetto più ampio di traduzione del Joyce poeta, limitatamente però ai componimenti “ludici”, di satira, parodia, nonsense e simili. Testi con contraintes di metrica e di rima: questo perché per me la traduzione deve rappresentare la sfida di riprodurre nella mia lingua gli stessi moduli dell’originale – un presupposto assurdo e impossibile che ho esposto in passato come la “follia del traduttore”. Il bello poi è, nel caso di Joyce, che i testi in questione sono per lo più occasionali, dedicati ad amici o nemici (alcuni li ho definiti “di rivalsa”), magari eseguiti sull’aria di canzoni popolari; dunque semi-dispersi e indubbiamente non elaborati per restare seriamente nella fama imperitura del classico. Tuttavia, a ben vedere, si tratta di uno spirito (detto in vari sensi, compreso l’alcolico) che circola anche nei grandi capolavori, Ulysses e Finnegans Wake, e a mio parere li innerva profondamente.
Il progetto è ora libro: James Joyce, Rime parodiche e giocose, pubblicato dall’editore Lithos.
Anticipo qui un breve stralcio della mia introduzione:
Si è capito, dunque, che questa non è una raccolta di tutte le poesie di Joyce e nemmeno di tutte le poesie disperse. Ho lavorato soltanto a tradurre quelle che recavano traccia di forma chiusa del tipo strofetta o filastrocca (c’è anche una sezione di limerick, la forma tradizionale irlandese) e ricalcassero schemi di poesie o canzoni, quindi in forma di parodia. Sono poesie sparse che rientrano tra le “poesie d’occasione”. Se la poesia ha una collocazione marginale nella complessiva opera joyciana, qui saremmo al margine del margine… Sono però componimenti molto legati a quello che chiamerei l’atteggiamento-Joyce, cioè a quel personaggio che l’autore si costruisce e al quale resta sostanzialmente fedele nel tempo: un personaggio che si autostima fino alla supponenza, anticonvenzionale, libero anche nel linguaggio, un po’ spaccone che non esita a entrare in conflitto e a troncare i rapporti quando si sente tradito, pronto a gesti generosi malgrado la perenne bolletta, amante della convivialità e soprattutto della combutta di bevitori, pronto al riso e allo scherzo e al gioco con le parole. Queste poesie nascono appunto da occasioni che non hanno niente a che vedere con quelle montaliane, non sono sprazzi di ispirazione (semmai quelle Joyce le riserva ai brevi brani in prosa delle Epifanie), dipendono invece da circostanze molto concrete e legate a una precisa accidentalità. Molto spesso la poesia ha allora un ruolo di “resa dei conti” e di restituzione di torti subiti, è una sorta di poetic revenge, di vendicazione irridente. Se tanto c’è sempre qualcuno che si scandalizza («I cannot write whithout offending people», scrive all’editore dei Dubliners nel maggio 1906), allora tanto vale offenderlo di proposito.
Dirò tra breve in quali forme vada a depositarsi questa sorta di scherma verbale; intanto vorrei segnalare due cose: 1) qui siamo di fronte a una funzione opposta a quella delle liriche amorose che dovrebbero servire da attrazione, qui piuttosto predomina la messa di distanza. Mentre la poesia d’amore vorrebbe avvicinare l’amata per quanto lontana, la polemica scaccia il suo oggetto il più lontano possibile. Ogni autonomia poetica viene sorpassata da un uso (in senso brechtiano) e da una sorta di valenza pratica ‒ e questo spiega perché si recuperino delle forme popolari come non ci fosse bisogno di andare a cercare la forma chissà dove, ma andasse bene la prima a disposizione; 2) per gustare queste poesie (e anche per tradurle) è necessario rimetterle nel loro contesto, cioè confrontarle agli episodi della vita vissuta dell’autore. È impossibile quindi procedere senza il supporto della biografia e per fortuna ne abbiamo a disposizione una dettagliatissima, quella di Richard Ellmann (James Joyce, 1959), che ho sfruttato a man bassa per le note di commento. Per facilitare la lettura, ho pensato di aggiungere ad ogni testo una nota che valesse a collegare i versi (quasi sempre molto laconici, in quanto destinati a conoscenti che erano al corrente di fatti e personaggi) con l’aneddoto al quale sono riferiti e con le coordinate del personaggio dedicatario. In questo modo tornano a galla in pieno gli slanci amicali o conflittuali che sono alla base della creatività joyciana e non di rado sono in comune con la sua narrativa maggiore: non per niente vari personaggi qui rappresentati sono poi gli stessi che ritroviamo come veri e propri personaggi, ad esempio, in Ulysses.
05/11/2022