Ho sempre ammirato, nelle scritture di Alberto Arbasino, questi tre aspetti: l’imitazione, l’ironia e la satira.
Innanzitutto l’imitazione, la capacità mimetica di riprodurre i linguaggi e gli stili. Quello che lui stesso chiamava il pastiche, per il quale aveva eletto a maestro Gadda; anzi, più che maestro, a “zio”, con la formula “i nipotini dell’ingegnere”. Questa capacità si mostra non soltanto sul lato narrativo della sua opera, ma anche su quello critico: dai suoi saggi ai più brevi articoli era tutto uno scoppiettare di citazioni e di rimandi, sostenuto da una cultura ingente e curiosa, aperta all’estero – uno dei suoi interventi “storici” più efficaci rimane quella Gita a Chiasso dove indicava potersi recuperare, varcando un confine comodamente raggiungibile, l’aggiornamento necessario ad uscire dal provincialismo e ad essere al passo con la più avanzata cultura europea.L’imitazione comprende il citazionismo. Le citazioni compaiono in gran copia già ne L’Anonimo Lombardo (1959), nella sede inusitata delle note, due volte provocatorie (scrivere un romanzo con le note è una; riempire le note di citazioni è la seconda provocazione). Di lì a poco, Arbasino aderirà alla compagine del Gruppo 63: è vero, un po’ defilato e parco di interventi nei convegni; è vero, non allineato sulle posizioni più estreme dell’antiromanzo, e però sempre d’accordo su di una linea sperimentale che eviti e tenga a distanza le grandi direttrici canoniche del romanzo realista e del romanzo psicologico. In quel torno di anni, Arbasino si fa promotore del metaromanzo (ci torno tra poco) e soprattutto del romanzo-coacervo, frammentario, farraginoso, composito. Così scrive in Certi romanzi:
Il Romanzo-Coacervo redime lo ‘status’ dell’Organismo Narrativo mettendo da parte gli strumenti e i fini della rappresentazione convenzionale, più o meno benintenzionata e informativa. Secondo un’apparente dissoluzione della tradizione ‘formale’, per far fronte alle proliferazioni pluridimensionali di una Realtà delirante, comincia a mimarne le contraddizioni e le crisi nelle strutture dell’opera.
L’accumulo di cultura e, insieme, di incultura, fino alll’esibizione del kitsch (sul modello degli amati Bouavard e Pécuchet di Flaubert), sostituisce ed elimina la valenza di testimonianza o di confessione. Il romanzo parla con “le voci degli altri”. E questa è appunto, la risorsa dell’ironia; che non dice quello che pensa il soggetto, ma il soggetto fa dire al testo il contrario di quello che pensa, proprio al fine di stigmatizzare l’avversario. La lama dell’ironia è il trattamento che attende i materiali impropri (cioè non personali) che vengono utilizzati. Si potrebbe parlare anche di straniamento (non per nulla Arbasino definiva Brecht il “Mago di Augusta”). E si potrebbe giustamente parlare di parodia: la parodia è la forma che assume l’ironia nei confronti dei modelli consolidati e delle opere del passato. Uno dei punti più incisivi della produzione di Arbasino è il Super-Eliogabalo, pubblicato inizialmente nel 1969 (poi riscritto altre due volte), dove la storia antica si mescola con la messa in scena attuale e gli anacronismi che ne derivano sono per l’appunto gli agganci dell’ironia che rendono palese l’artificiosità della scena. Sicché la risposta ai movimenti contestativi e alla conseguente crisi della neoavanguardia è, in Arbasino, uno spumeggiante romanzo pop (una analisi di questo testo è in archivio, qui nel sito, alla voce Arbasino).
Quanto detto su imitazione e ironia potrebbe far classificare l’autore nei ranghi del postmoderno che si sarebbe sviluppato da lì a una diecina d’anni. Ma non solo Arbasino sarebbe in anticipo: sarebbe anche differente dal mainstream postmodernista italiano, in quanto la sua “riscrittura” non è né innocente né innocua. L’ironia (come deve per essere “mordente) si coniuga con la satira. Satira non solo dei vizi della piccola-borghesia nazionale – vedi, tra le altre cose, gli interventi di Fantasmi italiani (1977) che si pongono «di fronte ai disturbi culturali e politici che colpiscono la vita italiana contemporanea» – ma anche proprio del birignao del ceto intellettuale. Sicché il metaromanzo sarà principalmente la storia di rapporti mondani al dunque poco concludenti, di dialoghi culturali sottesi da vaghe strategie; ciò in una delle sue maggiori fatiche, quei Fratelli d’Italia, più volte riscritti. Dopo la “fine del romanzo” si potrà sempre narrare il “romanzo da farsi”. Niente è meglio di questo passo emblematico da L’Anonimo Lombardo:
Qui l’artista chiama chi legge a partecipare dei propri problemi, si svela e discute, dosa questioni tecniche e episodi aneddotici. Io parto dallo stesso punto di vista, per movimentare il racconto e “dargli aria” incomincio (diciamo: a partire dall’autunno) a esporre le preoccupazioni di un autore che si è accinto a scrivere quella storia di cui hai letto i primi capitoli, quello che si svolge alla Scala, ecc. Incominciano le difficoltà, e per superarle questo scrittore inizia un ampio dibattito sui problemi del mestiere letterario, che accompagna la storia nel suo sviluppo come quel côté appunto di Hemingway, o addirittura come un “giornale dei Faux Monnayeurs.” Questo è un momento della massima importanza, perché, facendo del mio protagonista uno scrittore in difficoltà nella stesura di un racconto (Azorín…) costui, non bastandogli di teorizzare sui propri problemi, a un certo punto decide di entrare nelle vesti del proprio personaggio, e di uscire di casa, risoluto a procurarsi mediante avventure un materiale narrativo adatto a rinsanguare il suo schema traballante, e senza bisogno di andare in Africa o in Spagna, medita di esser l’Hemingway della situazione proponendosi di cercare l’avventura nella sua propria vita di ogni giorno. “Ecco perché mi veniva in mente il Felix Vargas.”
Questo scrittore non sono più io: io a questo punto sono l’autore della storia di uno scrittore in difficoltà.
Qui l’ironia diventa autoironia e si presta ad assumere quella funzione di détournement e di demistificazione che lo stesso autore auspicava intervenendo al convengo del Gruppo 63 sul romanzo sperimentale: «aggiungendo che questo lavorio “tecnico” porta fra l’altro a mettere a punto con qualche vantaggio uno strumento espressivo sfacciatamente polemico contro il luogo comune che il corpaccio inerte della nostra vecchia lingua neolatina sia ormai dilapidato al di sotto d’ogni possibilità di trasalimento espressivo».