ALBERTO ARBASINO

SUPER-ELIOGABALO TRA AVANGUARDIA E POSTMODERNISMO

 

Presente nella antologia fondativa del Gruppo 63, Alberto Arbasino conserva pur sempre un suo percorso particolare e singolare di narratore, che – come dire – non taglia tutti i ponti con la tradizione del romanzo. Dell’avanguardia non ha né l’adozione di procedimenti programmatici (sebbene tale priorità del puro procedimento sia più un’idea che hanno gli avversari esterni all’avanguardia che non gli scrittori attivi in essa); né raggiunge gli esiti più estremi di atomizzazione del narrato, rappresentati nell’area della neoavanguardia italiana soprattutto dalle prose dei poeti, oltreché dai gruppi sperimentali, come gli emiliani di “Malebolge” o i siciliani della “Scuola di Palermo”. Un’analisi di Arbasino in termini di avanguardia è tuttavia possibile e proverò a farla scegliendo come cartina di tornasole un testo, Super-Eliogabalo, uscito in prima versione nel 1969, in un periodo in cui, come suggerisce subito la data, la febbre della contestazione era molto alta e lo stesso Gruppo ’63, impegnato nell’impresa di “Quindici”, stava per esplodere non reggendo la concorrenza con l’estremismo studentesco, ma, proprio per questo, offrendo in quel torno di tempo alcune delle rese testuali più audaci, con un ritorno alle punte trasgressive delle avanguardie storiche. In questa temperie, il libro arbasiniano può essere messo in prospettiva con un precedente surrealista di non poco conto come l’Eliogabalo di Artaud, uscito in italiano non per caso nello stesso anno, pochi mesi prima, ed evocato fin dalle pagine d’abbrivio. La cosa si complica ulteriormente, perché il romanzo di Arbasino, nel suo uso parodistico-satirico del kitsch e nella pratica della citazione e del travestimento (quella che Barilli ha chiamato la «narrativa alla seconda») anticipa da par suo l’avvento del postmoderno che, da noi, farà la sua apparizione soltanto una decina d’anni più tardi. Mi pare dunque una situazione da scrutare con attenzione: se lo sviluppo negli anni Sessanta di una seconda ondata di avanguardia in modi così diffusi e organizzati è una specialità italiana (direi, dal mio punto di vista: un “miracolo italiano”), essa di dimostra sempre più, a guardar bene, una curiosa intercapedine storica tra la fine del moderno e l’inizio del postmoderno, una variabile impazzita che forse ci costringe a ragionare un po’ fuori da quei termini e da quella contrapposizione (moderno/postmoderno), caratteristici della cultura-letteratura di lingua inglese.
Prescinderò per il momento dalle due successive versioni del testo, che testimoniano del continuo processo di riscrittura con cui Arbasino tratta i suoi libri (lo stesso accade al suo romanzo principe, Fratelli d’Italia), in una sorta di insoddisfazione permanente, o di furia revisoria, a meno che non si tratti di fedeltà al contesto storico e quindi di adattamento continuo ai suoi mutamenti, oppure ancora non sia per affetto verso i filologi, che abbiamo del lavoro da fare anche sui contemporanei. Proverò a leggere il Super-Eliogabalo su quel crinale epocale di contestazione e su quel duplice interrogativo teorico: avanguardia? postmodernismo? Sì e no. Arbasino sembra partire abbastanza distante dalla “funzione Beckett” in auge nella neoavanguardia italiana, preferendo all’orizzonte “povero” dei personaggi fuori-sesto, emarginati o asociali, l’orizzonte “ricco”, anzi assolutamente affollato e altolocato, nientemeno che dell’Impero e della Storia con la maiuscola (come vedremo quella che sembra prevalere è una “funzione-Flaubert). Il prefisso “Super”, intanto, apposto al nome dell’eroe, è già una cospicua variante rispetto al titolo artaudiano. “Super” ha una duplice accezione: certamente, innanzitutto, quella intensificante, che allude a una esagerazione iperbolica del carattere del personaggio (già esagerato di suo), e una ipertrofia del testo stesso, che sarà di tipo inglobante, tendente alla ressa barocca, nutrito di materiali culturali fino all’eterogeneità spinta; ma “super” può anche indicare il “superamento”, quindi un “oltre-Eliogabalo”, la dissipazione del suo stesso mito di “anarchiste couronné” mediante il distanziamento umoristico. Supereliogabalo risulterà infatti un romanzo “pop”, che trascina l’icona ironica per i meandri della “bassa cultura” come terreno ineludibile dell’arte odierna; sarà per certi versi un musical, una sorta di opera-rock, come sottolineano gli appellativi di «Super-Aquarius Super-Star, Super-Sex» (p. 9), tratti dalla produzione dell’epoca.
Eliogabalo è ancora e sempre un santo anarchico, dedito alla trasgressione e all’oltraggio delle istituzioni più riverite (Artaud ne leggeva la storia come un imperatore che sale al trono in sfregio all’Impero Romano); un surrealista ante litteram; nel finale del decennio Sessanta, un degno antesignano della “immaginazione al potere”. Tuttavia, l’Eliogabalo di Arbasino perde molto del suo fascino mistico e misterico, venendo trasposto brutalmente, per mezzo di una riscrittura del tutto attualizzante, nei dintorni della quotidianità. La prospettiva quasi da cosmogonia si perde: «ecco anche gli stendardi color sperma e color mestruo dell’Eliogabalo di Artaud [sono le bandiere rispettivamente del principio maschile e di quello femminile, divisi dallo scisma di Irshu], di spugna, da stendere sulla sabbia» (p. 18). Mentre in Artaud l’attualità era scoperta nello stesso personaggio storico, in Arbasino si dispiega attraverso un processo di adattamento e di abbassamento del suo nel nostro tempo, in una sorta di tempo misto. Inoltre, mentre Artaud assume come significativo l’intero arco della vita di Eliogabalo, Arbasino si concentra su una giornata-tipo che procede con ostentata lentezza, con il corteo imperiale che raggiunge la villa, uno spettacolo, un dibattito di senatori, un’udienza di ambasciatori, ecc. Ma il punto decisivo è sicuramente quello della mescolanza cronologica: l’uso di un anacronismo radicale, che funziona da allegro straniamento di qualsiasi “mito” dovesse stratificarsi addosso alla storia. Il corteo dell’imperatore è formato da lettighe di ordinanza, eppure «passano accanto a un distributore di benzina»; il «sicario di fiducia» viene cullato dalla filodiffusione; le clessidre «funzionano malissimo» perché i servitori non vogliono fare lo straordinario, e via di questo passo in continuo cortocircuito tra passato e presente. L’antichità, il piano nobile del patrimonio culturale, si ritrova in svendita al supermercato. E così, il mondo di questo Impero della Decadenza viene rimpinzato di particolari, che sono magari i dettagli della moda, dell’arredamento, del kitsch arrembante, i simboli classici ridotti a souvenir pacchiano; proviamo un esempio:

Tutta la lettiga è carica di bottiglie e bicchieri, e fla­coni, e anche di molti giocattoli tipicamente romani: fa­sci littori di panno lenci, quadrighe con le rotelle e la chia­vetta per la carica, un Giove che fa le scintille, un Colos­seo della bambola, una Didone che mostra la lingua di gomma sotto una mascherina decorata a lacrime di bril­lantini, un Vittoriano di marzapane, un Duce di cioccola­to, una lupa che muove la testa su e giú e (schiacciata) fa il latte sopra un Romolo e un Remo che (spremuti) fanno l’uno cricrí e l’altro pipí. (p. 31)

Affetto da continue contaminazioni temporali, il testo si offre a una sarabanda altrettanto inesauribile di citazioni. La citazione impazza nei suoi molteplici livelli: la riproduzione vera e propria, il ricalco, l’allusione, la semplice menzione, quest’ultima frequentissima, dato che la febbre elencatoria sfrutta l’elemento minimo del nome o del titolo. Non solo le fonti storiche su Eliogabalo vengono a fare parte integrante del testo, ma lo stesso Artaud è rievocato esplicitamente e interpretato a dovere: «Eliogabalo, per Artaud, è il Metternich dell’anarchia, il Pompidou del disordine, è un Machiavelli beatle che si propone con strumenti precisi e sistematici di per-sov-vertire ogni gerarchia “sacrosanta” di valori grecoromani sclerosati» (p. 41). Il «Gran Gran Gala» operistico è costituito da un omaggio a «un’opera pressoché sconosciuta» di Alfred Jarry, il cui Ubu-Roi non è che un altro modello di “anarchia coronata”.  E via via, dalle citazioni più ampie a quelle infinitesimali e disperse. Insomma, “i materiali a disposizione di Arbasino sono l’intera Cultura”: e allora cosa c’è di meglio della tecnica elencativa per stipare nel più breve spazio possibile la più densa massa di oggetti e di opere? L’elenco funziona nel Super-Eliogabalo, in senso stretto e in senso largo, sia come stile che come struttura. Lo stile dell’elenco conviene alle smanie collezionistiche e alla volubile attrazione dell’imperatore-bambino e ad un occhio che sembra voler descrivere più che narrare (con buona pace del vecchio Lukács). Ecco subito all’inizio della passeggiata:

Il corteo parte, addirittura di corsa.
Si avvia come fuggendo verso la campagna.
Supera in fretta pochi gruppi neri d’alberi vulcanizzati.
Sorpassa rapidamente Cecilia Metella, un pastore col gregge,
un cane a sei zampe, una carovana di zingari,
una portantina rococò in perspex
e plexiglas e acciaio cromato, una 850 special a sei ruote, una Fuga in Egitto,
un Abramo, un Isacco, un accampamento di tedeschi,
una Susanna coi Vecchioni,
un Ratto delle Sabine,
una roulotte in fiamme, una siepe di rose,
un romanzo del Melograno,
una fila di sarcofaghi. (p. 17)

Non serve evidenziare le esilaranti escursioni cronologiche, qui quasi automatiche (il “cane a sei zampe” simbolo della benzina messo giustamente in una scena di pastorizia) lo si rintraccia lungo il percorso del corteo, il cui lento pede dà spazio a un susseguirsi di incontri e conferisce un carattere di esibizione, stazione per stazione, contribuendo ad un benjaminiano valore espositivo. Alcuni brani sono costruiti in partenza proprio come liste (una lista di cause, di luoghi comuni, di notizie dal mondo, di apparizioni magiche, di provvedimenti urgenti, una hit parade, gli amici a cui spedire la cartolina, le definizioni di Dio, una serie di immagini storiche, eccetera eccetera), tanto che potremmo dire che tutto il libro è un elenco, avanzando pezzo per pezzo.Da tratto stilistico l’elenco diventa la struttura del testo,  e qui s’impone la “funzione Flaubert”, il modello Bouvard e Pécuchet, che infatti verrà ricordato in un inserto aggiunto nella seconda edizione 1978, proprio in coda a una lunga lista:

«Ma si capisce o si capirà mai che tutte – o quasi – que­ste cazzate sono volute?» si domanda un po’ inquieto l’Im­peratore. (…) Avrebbe voluto dedicare tutta la pro­pria attività all’edificazione di un monumentale Sottisier, che secondo l’esempio massimo di Bouvard e Pécuchet rac­cogliesse in un inventario o trovarobato o deposito almeno una prima campionatura della smisurata ‘betise’ (stronzag­gine) romana e italiana.

Possiamo già, a questo punto, tentare di verificare il nostro interrogativo, avanguardia o postmoderno? Che andrebbe convertito in un altro dilemma: pastiche o parodia? Che significa: pastiche=parodia bianca, ovvero una ripresa indifferente dotata di ironia leggera, vs. parodia=satira mordente che erode i modelli autorevoli, dotata di carica critica. Certamente in Sper-Eliogabalo la critica c’è, c’è l’irriverenza dissacrante e la sottolineatura iperbolica del vuoto di cui risuonano i Valori con la maiuscola, eppure c’è anche una altrettanto innegabile vitalità dei brandelli recuperati che volano da tutte le parti, c’è l’allegoria propria degli oggetti desueti ma c’è anche l’allegria delle possibili nuove combinazioni, che vanno in tutti i sensi, come i rapporti eslege dell’imperatore gaudente. Deprezzamento e rivitalizzazione: su questa contraddizione si attestava Angelo Guglielmi nella sua recensione al romanzo, uscita su “il verri” del 1970. Guglielmi iniziava puntando sul «processo di svalutazione dei contenuti, di desemantizzazione dei materiali significativi non a caso presi pescando con le mani nel deposito della Storia, non a caso, giacché con materiali di questo genere l’operazione di svalutazione può essere realizzata con più enfasi e allegria»; e qui già la distruzione comincia a cambiare di segno e lo fa nella stessa immagine trovata dal critico: «I suoi romanzi (o in qualsiasi altro modo si vogliano chiamare le sue opere) sono dei numeri di striptease sempre più audaci»; ma se «la degradazione dei valori è la specialità di Arbasino», tuttavia l’aspetto satirico-polemico è qui più complesso, «in questo Super-Eliogabalo la presenza di materiali svalutati si configura con un altro segno: non con il segno negativo della critica, della denuncia, della demistificazione ma con il segno positivo di una affermazione di vita cioè della ricerca di una strada attraverso la quale raggiungere una più piena e libera conoscenza e pratica mondana». Del resto, se proviamo un attimo a contestualizzare il testo in quella “vulcanica” parte finale degli anni Sessanta, emerge chiaramente un rapporto con la contestazione, la stessa scelta del giovane ribelle, e la centralità della sua soggettività aberrante, che sussume l’anarchismo surrealista artaudiano sia pur con qualche ironia, ma con una adesione di fondo. Tuttavia, l’operazione suona, d’altra parte, da ammonimento all’operaismo egemone allora tra i gruppi extraparlamentari con la sua etica forzata della rieducazione degli intellettuali: di fronte al proletario-modello e alle illusorie fantasie della presa militare del potere, Arbasino ricorda, attraverso il suo “imperatore per caso” e l’esercizio grottesco della violenza, il ruolo fondamentale del nodo-cultura. Se non si affronta il maremagno dell’immaginario collettivo, l’impegno rivoluzionario finisce per essere la caricatura di se stesso. Ancora: se tutto è merce e se quindi, di conseguenza, tutto è stupido, come si può pensare di essere “puri” al di fuori di questo sistema? Il Super-Eliogabalo suggerisce che si fa molto presto a finire nel deposito falubertiano delle idées reçues.
Si attua in quel giro di anni una sorta di sfida delle contestazioni: la contestazione testuale vuole mostrarsi altrettanto eversiva di quella giovanile-politica (si veda a questo proposito la proposta di Sanguineti per cui l’avanguardia, in quanto “letteratura della crudeltà” – ancora Artaud! – «è la rivoluzione sopra il terreno delle parole»); una sfida che stimola al massimo la scrittura, ma che è destinata a essere perduta (come succede nelle “corse agli armamenti”) dal concorrente più debole: terminerà con la scissione di “Quindici” e la fine ufficiale del Gruppo. Ma intanto gli autori connessi alla neoavanguardia avevano ricordato alla grande che non c’è solo l’impegno sulle cose, e che quello comunque è frenato se manca l’eversione delle parole. Ora, tornando al Super-Eliogabalo di Arbasino potremmo chiederci dove si trovi specificamente l’eversione del suo salto mortale (per citare Malerba, indicato tra gli ispiratori). È evidente che si trovi in un eccesso della quantità dei materiali, in quanto il lettore che va alla ricerca del suo buon plot si ritrova inondato dalla scenografia sovraccarica. Tuttavia, con una certa sorpresa, leggiamo, nella nota che l’autore appone più tardi alla seconda edizione del libro, che l’impressione è sbagliata e che siamo di fronte a una sorta di scarnificazione. Scrive Arbasino: «questo Super-Eliogabalo è stato il primo di un gruppo di quattro piccoli romanzi fondati – al contrario dei Fratelli d’Italia – su un procedimento non dell’Aggiungere ma piuttosto del Togliere: riducendo se possibile ogni anche vasto ‘capitolo’ a poche righe concentrate e isolate in una pagina quasi vuota». Né la cosa è tanto contraddittoria, dopo tutto: infatti, l’aumento vertiginoso della quantità di materiali, fa sì che ciascun elemento diventi sempre più piccolo. La poetica del “Togliere” non porta verso una “povertà” beckettiana, bensì verso una frammentarietà benjaminiana. Quei capitoli ridotti, quei quadri quasi staccati che sembrerebbero lasciarsi scomporre e ricomporre a piacere, come un puzzle, sono da un lato l’unica riproduzione davvero “realistica” di una modernità avanzata con le stridenti contraddizioni del suo “mondo a pezzi”, dall’altro lato sono i contrassegni di una nuova estetica dell’informale, sia che li intendiamo come i tasselli lasciati al libero potere dell’“opera aperta”, sia che proviamo a leggerli secondo l’allegoria, come i componenti di un disegno enigmatico. Scrive ancora Arbasino, nella nota, che sono « “frammenti mobili” isolati e compiuti in sé, come piccole rappresentazioni (sketches, cartoons, cataloghi) prevalentemente visive, e magari disponibili secondo un diverso ordine di successione. E tirano magari verso la ‘sceneggiatura’ cinematografica e televisiva di specie anche scellerata». Proprio dal cinema proviene il primo dispositivo del testo, quel frontespizio posposto, che arriva dopo varie pagine, proprio come succede a volte ai titoli dei film (del resto Angelo Guglielmi suggeriva: «Questo Super-Eliogabalo dobbiamo leggerlo come un film»). Di «siparietti» e «fumetti» è il testo stesso a parlare. La spezzatura, l’interruzione, la sutura provvisoria, provengono dunque dal bagno dell’Opera con la maiuscola nel terreno dei generi “bassi”, un passaggio che l’avanguardia non ha mai disdegnato nella sua lotta con le pretese sublimità aristocratiche dell’arte; ben venga dunque la commedia musicale, la vignetta, la gag, il “teatro di varietà” con i suoi tormentoni (si veda quello dell’elefante, ogni volta rispedito indietro che ricorda la ritornante ricerca di Miss Jones in Helzapoppin).
Frammentarietà, discontinuità, dunque. Dove non si tratta solo di gran quantità in breve spazio, ma anche di differenza e quindi di décalage e di scarto: della eterogeneità del coacervo che diventa molteplicità di generi: così, tra i frammenti in prosa, sono intercalati frammenti poetici, un po’ come i song brechtiani; e davvero eterocliti sono i brani iniziali, che riproducono a mo’ di calligrammes il volo degli uccelli per i pronostici degli aruspici, veri e propri esercizi di poesia visiva, che predispongono al carattere visivo-descrittivo (frammentario-allegorico) dell’intero testo. Altri inserti pesantemente prelevati sono i brani degli storici riguardanti la cattiva fame dell’imperatore, eterogenei in quanto provenienti dritti dal passato. Ma soprattutto eterogenei sono i passi di  teoria del testo. Un testo che contiene in sé una poetica esplicita, intanto dimostra una rilevante dose di consapevolezza, a negare il mito della creazione ingenua e indotta da invasamento divino; in secondo luogo, la spiegazione in scena è provocatoria rispetto al critico, che si vede giocato d’anticipo, nonché disturbante nei confronti del lettore che volesse godersi semplicemente il racconto. E invece, teoria c’è.
Anche Fratelli d’Italia, prendendo la strada del romanzo-saggio, nella sua mimesi della chiacchiera intellettuale conteneva acute indicazioni sul pastiche come «atto creativo-critico» (improntato all’effetto di straniamento del «Mago di Berlino» – Brecht, naturalmente) e proponendo negli aforismi finali una linea Flaubert, già indirizzata verso l’elenco e l’impasto:

… La risata dei due ilari castori Bouvard e Pécuchet sul ‘jeu de massacre’ che calpesta i limiti tra realtà e immaginazione, dramma e farsa, narrativa e saggistica, presente e passato, vero e falso e mitico e meramente probabile….

E Arbasino in veste di teorico, al convegno di Palermo sul Romanzo sperimentale, era intervenuto esattamente su una linea di ripresa caricaturale del romanzesco – diceva nel suo intervento: «e allora a questo punto gli espedienti più sdati, addirittura da feuilleton, perché non potrebbero venire inseriti in romanzi di un “à la page” delirante (…) In questo senso dico che la costruzione di un romanzo e il suo vero plot è la riflessione critica dei procedimenti del romanzo stesso» – una ripresa dell’espediente sottolineato e virgolettato molto vicina alla poetica della riscrittura ironica. E il Romanzo-Coacervo, ipotizzato nelle pagine di Certi romanzi, può essere visto facilmente come il progetto in nuce del Super-Eliogabalo. Partendo ancora una volta dai due copisti falubertiani Arbasino passa per il recupero degli eroi dell’eccesso (non c’è Eliogabalo, ma c’è comunque Sardanapalo) recupera i mani crudeli della linea Jarry-Artaud, pervenendo infine nella parola d’ordine della deformazione, qui anamorfosi. Che dunque il romanzo

si spalan­chi in tutte le direzioni, a tutte le possibilità, proliferando selvaggiamente, procedendo per accumulo e congerie di frammenti, disponendosi a tutti i significati probabili, sen­za chiudersi nessuna strada, inglobando i materiali piu sfac­ciatamente eterogenei… tutto va bene, tout se tient… e fra­nino pure, tanto meglio, tutti i limiti di gerarchia e di valore fra realtà e immaginazione, presente e passato, vero e falso e mitico, fra il dramma e la farsa, la narrativa e la saggisti­ca e la poesia… mobile e happening, pentolone e millefoglie, «sistema smisurato» e «mostruosa nebulosa» e Festino di Sardanapalo, ‘summa’, elenco, deposito, anatomy, ricettaco­lo di ‘articoli’ enciclopedici avulsi da ogni ‘sistema di valo­ri’ e svillaneggiati con la rigorosa crudeltà di Jarry e di Ar­taud in una non-struttura informale che però è un Catalogo e mima le allucinanti discontinuità della Natura e della Cul­tura e della Realtà e del Pensiero con portentosa anamorfo­si.

Tutto è pronto per il testo di fine Sessanta, che a sua volta è ben disposto a squadernare la sua linea genealogica, a coinvorticare nel calderone i ritrovati delle metodologie contemporanee, non senza coinvolgerli nel gioco (l’istitutore-linguista è Jakobson, quindi oltre che romano, anche Roman) e per arrivare – in tal caso seriamente – a considerare le conseguenze, non solo le letterarie, di una simile operazione. E avremo allora dichiarata una vera e propria “filosofia della storia” che, nella sua pars destruens benjaminianamente invalida il rassicurante continuum («la storia degli uomini è una storia innaturale… molto inautentica… e scritta malissimo!… Certamente esiste solo nei pregiudizi degli storici: moralisti, piccolo-borghesi…», p. 297); nella sua pars construens si schiera dalla parte del disordine come unica forma di vitalità possibile («Occorre imporre una precisa tecnica di discontinuità contro gli effetti distruttivi della civiltà e del progresso», p. 198).
Ma eccoci al dunque: la mescolanza temporale nonché l’indifferenza tra realtà e finzione (per dire: «il corteo avanza cautamente, con timore, fra quinte di finto-legno dipinto sul vero marmo, e di finto-marmo dipinto sul legno vero», p. 93) farebbero propendere per riconoscere in Super-Eliogabalo un precedente ben attrezzato della poetica postmodernista, citazionista e metaletteria; per giunta il rilevante aspetto ludico consentirebbe di azzeccare qui il gioco di parole della Linda Hutcheon, “the pastime of past time”. Eppure, eppure. Quella forte accentuazione critico-ironica, le palesi distorsioni dello straniamento e della crudeltà, fanno pensare che un “filo rosso” modernista continui ad attraversare il procedimento pre-postmoderno. Soprattutto e, a mio parere decisivo, è il fatto del racconto assolutamente atipico. Mentre la riscrittura postmoderna, nella sua sfiducia nel futuro, riscrive il passato rispettando fondamentalmente la sua convenzione, il romanzo sessantottesco di Arbasino fa saltare completamente l’assetto narrativo. A differenza dalla “historiographic metafiction” illustrata dalla Hutcheon, che si limita a rifare la storia in chiave attualizzante (come nel Nome della rosa; e non a caso la Hutcheon cita Manganelli ed Eco, ma dimentica Arbasino), Super-Eliogabalo adotta una attualizzazione esplicita e dirompente che fa saltare in aria la forma-fiction nei suoi parametri ordinari. Come ha scritto Mario Lunetta in una recensione dell’epoca:

L’ingordigia di Arbasino è semplicemente onnivora, come si sa; ma probabilmente mai come in questo macchi­noso, eloquente, sbarazzino, virulento, dotto e beffardo di­vertimento che s’intitola Super-Eliogabalo (…), era arrivata vicino alla congestione. Comunque, giudicare in ter­mini di equilibrio e di calibrata compostezza un libro tutto scritto fuor di misura, tutto continuamente debordante fino allo spreco, alla prodigalità più vistosa di immagini, riferi­menti, doppi sensi, calembours, postille, scolii, citazioni vere e false – per riuscire insomma a una specie di Rabelais del­l’età dei consumi, con la perfetta (e perciò anche liberatrice, se si vuole) coscienza che il libro come opus è un’illusione perlomeno reazionaria, e che quindi anche la parola-merce non si situa al di fuori del destino storico che strozza qual­siasi altro rapporto umano reificato: giudicarlo in questi termini e secondo parametri ancora «estetici» vuol dire andare a caccia di farfalle con la colubrina.

Parametri estetici (qui Lunetta pensa naturalmente ai perduranti crocianesimi italiani), ma anche parametri postmoderni, datosi che virulenza, congestione debordanza, prodigalità dissipatrice e quant’altro sono qualità del testo dell’avanguardia votato al caos, quanto invece quello postmoderno è votato alle norme dell’industria del romanzo, ai suoi generi stereotipati e ai suoi stili moderati.
Vorrei soffermarmi infine su di un tratto che ritengo fondamentale: il racconto al presente. Il racconto dovrebbe essere al passato, come resoconto di esperienza vissuta; il presente è un modo quasi-impossibile di raccontare, anche se si usa la terza persona, come Arbasino, si è costretti a supporre uno scriba che prende appunti, inseguendo l’accadere in presa diretta, con tutti i salti e gli scarti del caso. Ma nel Super-Eliogabalo si aggiunge un altro problema: dato che qui il presente è onnivoro e abbandonato nei vortici di una cronologia impazzita, quale “mondo possibile” ne esce? In fondo anche l’Eliogabalo di Artaud è raccontato al presente, come a dire che la forza dell’immaginazione trasgressiva è valida in tutti i tempi. Ma Arbasino pratica l’anacronismo nel modo più stridenti degli accostamenti indebiti, che toccano il massimo quando Eliogabalo fa il lettore di se stesso (leggendo gli storici latini che lo riguardano) e perfino, sia pure un po’ di malavoglia, le pagine della propria morte ignominiosa. In quale “mondo possibile” saremmo mai? Non solo la storia viene modificata e la fine dell’imperatore diventa una apoteosi con assunzione nel divino, ma non si tratta nemmeno una finzione “autosvelante”, con il passaggio della metalessi nel piano del narratore: il narratore non ha nemmeno bisogno di intervenire di persona per demistificare il suo racconto, in quanto i due piani, il passato lontano della storia e il presente attuale del narratore, sono da subito per tutto il testo inestricabilmente intrecciati e confusi dall’anacronismo sistematico e quindi si demistificano da soli, reciprocamente. L’esito è quello di un mondo impossibile. La controprova sta nel fatto che non è possibile immedesimarsi nei personaggi: l’unica immedesimazione possibile è quella consentita dal testo sperimentale in genere, ossia l’immedesimazione nel narratore, la domanda sul perché ci abbia imbandito una simile tavola.
Insomma, il Sper-Eliogabalo tocca un punto sempre problematico per l’avanguardia: la questione della narrativa. L’avanguardia ha sempre capito che non è facile entrare sovversivamente nella fiction, perché si rischia di soggiacere ai suoi parametri “borghesi”. Arbasino accetta la sfida: mette in scena personaggi e luoghi riconoscibili, addirittura storicamente documentati, eppure immerge il vero nell’inverosimile, portando al limite l’antropomorfismo (il “come se”) della narrazione. Questo tentativo rimane eroico. Se l’autore ci ha avvertito, in un suo passaggio, che il romanzo tradizionale è morto e ne ha dato anche la data e il luogo di decesso («nel 1881, a metà dei Fratelli Karamazov, verso le tre del pomeriggio»), la salma è stata riesumata – proprio col beneplacito delle presunte ironie postmoderne, circa cent’anni dopo – e rimessa in sesto in pro dell’industria culturale. Però il romanzo (come capita talvolta alle mummie) adesso si è ristretto, rispetto ai suoi generi e stili. In Certi romanzi, Arbasino ricorreva alle partizioni di Frye, che considera quattro modi di narrativa: il novel (il romanzo), il romance (narrazione avventurosa-magica), la confessione e l’anatomia. Di questi è forse ormai la confessione a tenere l’egemonia, con l’ingenua concezione che il racconto ci parli di persone umane e ce le faccia conoscere. Di certo è il quarto modo a essere cancellato dal nostro orizzonte, proprio quello che accoglieva il massimo di dispositivi non-narrativi (satirici, pluristilistici, allegorici e simili). Super-Eliogabalo è lì a indicarci a cosa possa riuscire un testo narrativo a dominante “anatomica”.

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