Cinquant’anni dopo: “Quaderni di critica”

Il 7 marzo 1973 usciva il primo volume del gruppo “Quaderni di critica”. All’epoca, il gruppo era formato da Filippo Bettini, Stefano Giovanardi, Massimiliano Mancini, Aldo Mastropasqua, Giorgio Patrizi, Mauro Ponzi e l’aggiunta del sottoscritto. Marcello Carlino sarebbe entrato nella redazione poco dopo. Per festeggiare l’anniversario ripubblico qui l’editoriale del primo numero.

EDITORIALE

Esprimiamo subito due (ovvi) postulati: primo, l’intenzione di dar vita ad una rivista è sempre (né potrebbe essere altrimenti) una intenzione politica; secondo, è necessario, perché quest’intenzione si realizzi compiutamente, che la scelta dei campi d’intervento e degli strumenti sia il più possibile rigorosa e il meno possibile «contaminata», pena l’insignificanza o (che è peggio: cioè reazionario) la tautologia. Operare nello specifico significa per noi essenzialmente reperire e dosare gli strumenti attinenti alla crescita del processo rivoluzionario: ma che proprio per questo devono rispondere a criteri di massima efficienza e capacità euristica, applicandosi ad universi riconoscibili e totalmente omogenei (riconoscibili, ogni volta che si renda necessaria una verifica, come quelli che con meno mediazioni agli strumenti stessi hanno dato origine).

Ed è un’operazione meramente economica (un bilancio delle proprie possibilità, delle proprie attitudini di mestiere) che decide della scelta fra i vari universi, fra i vari specifici a disposizione. Non pensiamo di aver bisogno di «excusationes non petitae», ma è il caso di sgombrare subito il campo da un possibile dubbio: fare una rivista letteraria non vuol dire credere nella letteratura, o meglio nel demiurgo-letteratura o nel letterato-profeta-mediatore; vuol dire soltanto riconoscere (storicamente) l’esistenza della letteratura e quindi di una sua funzione ad uno dei livelli della realtà sociale: e su quella funzione, a quel livello, intervenire, determinandone costantemente la collocazione, i referenti, le alleanze (sforzandosi in ogni caso di spingere l’analisi a tutte le sue conseguenze) fino ad isolare e a far emergere la connotazione pragmatica (di praxis) in essa sempre operativamente (internamente) presente.
In quanto tale, cioè in quanto sempre rinviante, attraverso i propri codici, alla prassi (e quindi alla storia e quindi alla lotta di classe), la letteratura è parte del processo rivoluzionario, elemento ad esso internamente dialettizzabile, capace comunque di farsi gestire in senso conflittuale, dall’una o dall’altra parte della barricata (capace di sconfiggere «altra» letteratura, e di esserne sconfitto). Acquista allora un senso, ed un senso imperativo, l’azione nello specifico letterario: che non è (o non soltanto) quello derivante dalla necessità tattica di non lasciare spazi agibili a forze regressive, bensì quello che si configura come volontà conoscitiva, come scoperta di nessi nascosti (ma verificabili) la cui finale utilizzazione non si risolva in formule o crismi metastorici, ma riesca al contrario a restituire il significato storico (e quindi in proiezione l’essenza normativa) di ogni tipo di contatto fra scrittura e ideologia, di ogni forma di dipendenza dell’una dall’altra e viceversa.
Tanto più oggi riteniamo politicamente necessaria una scelta del genere: oggi che la cultura italiana (ma non solo italiana) si dibatte fra consolatori moderatismi e dogmatici rigorismi, fra nostalgici vagheggiamenti di una salvazione al di sopra delle parti e brutali rassegnazioni ad onnipotenze ed onniscienze esterne. Oggi soprattutto che niente è più chiaro, né obiettivi, né strumenti, né volontà, che appare sempre più problematico e rischioso il collegamento della battaglia culturale alla lotta politica storicamente qualificata, e sempre più difficile l’opposizione alle manovre (ed alle istituzioni) restauratorie. Non pretendiamo certo di sapere quale sia la risposta rivoluzionaria a questo stato di cose; sappiamo comunque che tutte le risposte date finora non lo sono, e che quindi diviene una necessità battere altre strade, e particolarmente quelle dimenticate o mai percorse fino in fondo, prima fra tutte la via dell’accertamento scientifico del modo in cui le strutture letterarie si fanno veicolo di messaggi politici, allusivi al punto fermo del conflitto di classe.
Perché la letteratura possa decidere del suo destino storico (rivoluzionario), e dunque della sua sopravvivenza o della sua morte, è necessario innanzi tutto risolvere il nodo internamente contraddittorio e paralizzante costituito dall’esistenza di un’arte sempre politica, ma mai (o mal) politicizzata: scoprire con la maggior esattezza possibile, al di là di ogni ansia dilettantesca e di ogni misticismo, il punto in cui si verifica l’inserzione operativa del discorso politico sul tronco del sistema letterario, riteniamo sia il compito più pressante della critica letteraria odierna (almeno della critica di tendenza). Ma realizzare questo compito è oggi infinitamente più difficile rispetto, ad esempio, al decennio precedente: si trattava, negli anni Sessanta, di porre le basi, di ritrovare, ad altri livelli che non fossero quelli neorealistici, la nozione di impegno, definitivamente smarrita nelle compiacenze gattopardesche; si tratterebbe ora di continuare il discorso, di portarlo ai suoi esiti naturali. Ma chiunque abbia vissuto (non importa se in prima o in terza persona) l’esperienza del ’68, sa bene come certe fiducie siano venute meno, come sia stato quasi automatico rassegnarsi alla constatazione di una crisi, farne quasi una categoria storica (oltre che esistenziale); sicché ci si trova oggi a combattere su due fronti: da una parte contro la restaurazione istituzionale, dall’altra contro quella ben più insinuante e vischiosa, fatta di complessi di colpa, di irresolutezze, di tentazioni edipiche, che si può constatare in larghe zone della stessa cultura di sinistra.
Pensiamo che la nostra scelta (a patto che non rimanga affidata alle nostre sole forze) possa valere anche ad esorcizzare questi rinati fantasmi, a sostituirli se non altro con obiettivi forse meno brillanti e «totali», ma sicuramente più capaci di recare contri¬buti costruttivi. Perché siamo convinti che in determinati momenti storici (e il nostro è uno di quelli) sia la metodologia il problema centrale, quello cioè più disponibile di tutti gli altri a caricarsi di significati politici, e ad offrire indicazioni di lotta.
Credere infatti nella necessità di un’analisi storica e ideologica, perseguibile proprio attraverso l’uso di strumenti operativi che siano direttamente pertinenti alla struttura degli oggetti di volta in volta esaminati, non vuol dire né avallare, né tanto meno rinnovare (sotto diverse spoglie) il mito della neutralità della scienza. Siamo anche noi convinti (sulla scorta, di quei «francofortesi» che recentemente si è cercato di bruciare su roghi molto simili a quelli dell’Inquisizione) che non si dà settore dell’attività sovra¬strutturale, in cui il sistema borghese e neocapitalistico non sia giunto ad esercitare in modo determinante i suoi condizionamenti politici, economici e culturali. E pensiamo pure che le violente contestazioni, che dal ’68 ad oggi si sono venute sviluppando all’interno dell’istituzione scolastica, di quella psichiatrica e persino di quella più generalmente artistico-culturale, abbiano una volta per tutte rivelato il volto (non «apolitico» né «neutrale» ma) di classe della scienza e della cultura borghese, finalizzate come tali alla riproduzione meccanica e infinita del sistema politico che le esprime e le protegge.
Tutto questo, però, serve solo a capire meglio la fenomenologia della precisa situazione in cui ci dibattiamo, a vedere con più attenzione (e con meno illusioni) come stanno attualmente le cose, e al massimo a spiegarne le ragioni. Non dice, al contrario, né quali specifici mezzi usare per abbattere lo statu quo, né quali eventuali indicazioni operative elaborare per l’affermazione di un programma rivoluzionario totalizzante, che in quanto tale non intenda la sovrastruttura come immediata e automatica conseguenza della struttura, e soprattutto non le affidi l’ingenuo compito di essere continuamente trascinata a rimorchio di quest’ultima. Le alternative che a questo punto si offrono sono due: o continuare a pensare che una radicale trasformazione dei rapporti economici sia di per sé sufficiente per sopraffare la cultura borghese e produrne una rivoluzionaria; o ritenere invece che solo attraverso il rigoroso svolgimento di un sistema di interventi coordinati e autonomi in tutti i settori in cui si esplica il dominio della borghesia (e cioè, oltre che nella sfera dei rapporti economici, in quella di tutte le sue promanazioni ideologiche) sia veramente possibile rendere efficiente e continuo il processo di abbattimento dello stato capitalistico e di instaurazione di una società globalmente socialista.
Delle due, la seconda scelta è indubbiamente la più urgente. E non solo perché gli effetti che in questi ultimi quarant’anni di storia sono stati prodotti dai numerosi programmi di «politicizzazione selvaggia dell’arte» si sono puntualmente risolti in elemento di freno e di paralisi (piuttosto che di stimolo e di avanzamento) del discorso culturale (basti pensare al realismo che si affermò nell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione di Ottobre, o alla stessa cultura neorealista che si venne diffondendo in Italia nel periodo post-bellico). Ma soprattutto perché è logicamente e storicamente impossibile cogliere e valutare la portata più o meno eversiva di un’operazione culturale senza individuare i termini specifici in cui essa interviene e agisce su quello che è il suo appropriato sistema di espressione: e cioè sulla sua autonoma organizzazione linguistica (sulla sua pertinente struttura di relazioni segniche). È stata infatti un’aporia di certo marxismo idealistico quella di uniformare il significato «politico» di un’opera al contenuto delle idee in essa più o meno esplicitamente denotate. Al contrario noi crediamo che il solo criterio adeguato alla qualificazione politica di un gesto culturale (nel caso specifico letterario) sia quello di esaminare i modi concreti (e quindi distintivi) in cui se ne attua la pratica, e le precise valenze ideologiche di cui esso, a seconda dei casi e delle circostanze, si fa di volta in volta portatore.
In questo senso intendiamo parlare di scientificità dell’analisi. L’obiettivo che noi ci poniamo è il confronto dialettico (non la sovrapposizione) dei presupposti storico-politici che stanno alla base della nostra ricerca con i risultati delle analisi via via condotte sulla struttura degli oggetti letterari inizialmente presi in esame. E questo per una duplice finalità. Sia per superare lo stadio della pura e semplice constatazione fenomenologica degli aspetti che contrassegnano il funzionamento di un testo (e della conseguente astrazione metastorica del loro carattere di più o meno accentuata novità formale). Sia per raggiungere una compenetra¬zione unitaria tra il momento della teoria e quello della critica (tra il rilievo strutturale dei dati enucleati dall’analisi testuale e la conseguente estrapolazione dei loro significati ideologici e politici). Solo così ci pare possibile intervenire attivamente nella sfera letteraria, senza dover ricorrere né alla strutturalistica sospensione del giudizio, né alla zdanoviana interpretazione eteronoma del fatto artistico. I lavori presenti nella rivista non presumono certo di soddisfare completamente tutte le esigenze espresse: si accontentano di valere come prime e sommarie indicazioni per un lavoro da fare.
Decidendo infatti di aprire le pubblicazioni con un numero quasi interamente dedicato alla neoavanguardia, si intende soprattutto fornire una esplicazione operativa di quanto si è venuto finora dicendo: proprio perché alla base della scelta c’è il rinvenimento di un duplice piano di funzionalità del tema della neoavanguardia ai discorsi programmatici che si intendono portare avanti.
Una volta che – attraverso l’individuazione e l’analisi delle varie componenti politico-culturali di un fenomeno di restaurazione che, proprio nel momento in cui cessa di essere topos della critica militante, acquista le caratteristiche oggettive di una realtà storica sempre più pressante ed esplicantesi nell’arretratezza dei livelli operativi riscontrabile sia nella produzione creativa, sia in buona parte di quella saggistica – si sia preso atto della attuale situazione sociale e culturale e dei fattori che contribuiscono a rafforzarla, diviene imprescindibile (al di là di ogni giudizio valutativo) l’analisi di un momento in cui fu stabilita l’ipotesi di una strategia anti-istituzionale globale, tendente ad esprimere i termini contestativi di un discorso in qualche modo alternativo, a prescindere dalle formalizzazioni ideologiche vigenti e storicamente codificate. Se a livello di prassi politica il discorso della neoavanguardia sortì esiti mistificatori e soprattutto solo parzialmente anti-tradizionali, a livello di operazione culturale esso operò una serie di importantissimi interventi sul tessuto letterario italiano: dallo svecchiamento e dalla sprovincializzazione delle problematiche alla messa in discussione e liquidazione di una rete di valori e rapporti codificati e sacralizzati, fra cui quello fondamentale del rapporto gnoseologico dell’opera letteraria col mondo extraletterario.
Conseguentemente (e veniamo al secondo livello di funzionalità) ci interessa della neoavanguardia l’istanza di affrontare e risolvere con strumenti pertinenti i problemi concernenti il «lavoro letterario», cioè l’opera di elaborazione ed organizzazione di segni, problemi che rimangono come nodo irrisolto di una crisi generale della scrittura e che solo il generale riflusso conservatore ha potuto mistificare o far dimenticare. È questa l’istanza che riteniamo più importante recuperare: perché (sia chiaro) qui non si tratta, né è nelle nostre intenzioni farlo, di salvare la neoavanguardia o di riproporla. A tale intento non basterebbe ignorare le aporie gravissime che essa presentò: occorrerebbe addirittura non considerare la nuova realtà di lotta di classe venutasi a creare dopo il ’68, che impone una pertinente ristrutturazione delle strategie culturali e che soprattutto richiede l’elaborazione rigorosa di un’analisi della sovrastruttura e dei valori che in quella sede il sistema gestisce.
Quello che invece ci sembra poter individuare nell’esperienza neoavanguardistica è la consapevolezza costante di una specificità da salvaguardare, non per privilegi di casta, ma nel senso della scientifica applicazione di strumenti culturali che acquistano una dimensione proprio in quanto nati dallo e agenti sullo specifico. Che poi la neoavanguardia abbia preteso di esportare i dati e le analisi elaborate a livello di sovrastruttura nella prassi politica è l’errore storico di cui essa continua ancora a pagare le conseguenze: ma, proprio perché un giudizio di valore ci interessa in modo secondario, riteniamo necessario articolare ed aggiornare l’indagine sul movimento, affinché un senso operativo emerga dal rilievo delle tecniche di destrutturazione e ristrutturazione linguistica e/o dal rinvenimento di un nuovo e non usuale rapporto tra testo e realtà, tra istituzione letteraria e istituzioni del sistema.
Si spera infine di porre termine a quel visceralismo pervicacemente moralistico in cui si esibisce ancora tre quarti della cultura italiana quando si parla di neoavanguardia: riteniamo giunto il momento di rendersi conto di quanta cattiva coscienza ci sia dietro questo visceralismo e di come sia mistificatorio per la cultura di sinistra credere di fare un discorso utilmente innovatore portando avanti i temi ed i problemi che in primis dalla neoavanguardia erano stati liquidati.
In questa precisa prospettiva, nella trattazione del problema della neoavanguardia trova la sua verifica operativa quell’esigenza di fondo, di cui si parlava prima, di accertare la condizione attuale della letteratura, e di enuclearne le linee di tendenza possibilmente percorribili e recuperabili all’elaborazione di una prassi antagonistica.

07/03/2023

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