Giorgio Moio va “al fronte”

Poesia visiva e poesia lineare si possono disporre in un chiasma. Da un lato la poesia visiva utilizza come materiali parole e lettere incentivandone il valore grafico e magari ritagliandole come materiali visivi tra gli altri da assemblare in collage; dall’altro lato la poesia lineare può non esserlo poi tanto – lineare, dico – e spostare le sue linee in modo da occupare diverse posizioni, lasciare spazi bianchi, operare sui caratteri, e così via. Entrambe le operazioni sono unite dall’intenzione di strappare il lettore dalla consueta e abitudinaria percezione del linguaggio.
Di un simile chiasma approfitta da par suo Giorgio Moio nella recente pubblicazione di Testo al fronte, edito da Bertoni sul finire dell’anno appena terminato. E l’affrontamento cui allude il titolo è realizzato per l’appunto mediante l’alternanza di poesia visiva e poesia lineare che – con le interferenze che si sono dette – si danno il cambio rispettivamente alle pagine pari e a quelle dispari.

Per dare un’idea di questa composizione occorre riportare un’intera coppia di pagine, nel caso la 48 e la 49:

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Ma l’esemplificazione, pur necessaria, lascia il tempo che trova, in quanto le soluzioni adottate sono sempre diverse. Procedure ne succedono tante, da una parte e dall’altra, in una sorta di ping pong della creatività che si esercita sulla «lingua slinguata», indubbiamente memore di tutta la storia delle avanguardie: c’è il ritaglio e il collage, la line sghemba, la sovrapposizione, la cancellazione (in qualche caso anche sistematica), la disposizione del testo a collocarsi senza preavviso in qualunque parte (al centro o ai lati), la scelta di caratteri più grandi o più piccoli, l’uso anomalo della punteggiatura, ad esempio gli esclamativi messi a precedere (sarebbe un influsso dello spagnolo, se non fosse che qui l’esclamativo non è rovesciato ed è poi seguito da un lungo trattino basso), gli asterischi, le frecce, le parentesi tonde e quadre pure moltiplicate, l’agglutinazione dell’articolo (tipo: «linesistenza», «unmarasma», ecc.) o, al contrario, la disgiunzione mediante apostrofo («s’eguono», «s’ogno», «f’ango»), il plurilinguismo (in particolare con ingresso del francese), le forme modificate («jl grido», «squggiare», «skeggia») e altro ancora che sarebbe troppo lungo elencare; tanta è la varietà delle deviazioni che alla fine l’insistenza della rima («cualche volta serpeggia / di tanto intanto / schiumeggia / et aleggia / volteggia / corteggia l’indifferenza») sembra davvero la cosa più normale… Non a caso un termine ricorrente, combinato ricombinato in vari modi, è quello dell’“onda”; ecco, la fluttuazione linguistica sembra essere la regola profonda di questa attività testuale.
Il titolo Testo al fronte ricorda molto un vecchio titolo del Volponi poeta, Con testo a fronte. In Moio però l’affrontamento è proprio, come abbiamo visto, strutturale, nelle due operatività – poesia visiva e poesia lineare – che si guardano e si confrontano (e si contagiano) in qualunque punto noi apriamo il libro. Mentre in Volponi, in assenza di traduzione o altro, l’affrontamento era metaforico, rimandando alla polemica sociale contro il degrado del capitalismo. Per la verità, Moio, scrivendo “al fronte” invece che “a fronte”, si è a sua volta sbilanciato nel senso della guerra. Sicché tocca domandarsi: guerra a chi o a cosa? Una prima risposta potrebbe essere: al linguaggio, tanto le parole vengono manipolate con tutti gli accorgimenti che si sono visti; e però, si potrebbe dimostrare che i tormenti sono gli stessi di una cura e il trattamento è a fin di bene, perché si tratta di riscattare il linguaggio dall’atrofizzazione mercantile e restituirgli una buona dose di creatività. Siamo forse un po’ al di là della moderazione, quanto a “tasso di figuralità”, però Moio rientra perfettamente nel discorso teorico di Francesco Orlando sul “ritorno del represso nella forma”, per cui la poesia diventa quel luogo nel quale il piacere infantile di giocare con le parole, represso in età adulta, può venire di nuovo autorizzato. La guerra allora non è al linguaggio che, anzi, viene in qualche modo liberato, semmai alla mercificazione che lo semplifica e lo immiserisce. Parole

da lanciare come pietre
et / in / fondo / non / vi / è / altra /azione
a le logiche spietate de lo mercato
delle aziende letterarie

Ma aggiungerei anche un’altra considerazione. Mandare il testo “al fronte” mentre c’è una guerra in atto, appare vieppiù impegnativo, in corrispondenza di un dibattito tra pace e guerra difficile da dirimere razionalmente. Orbene, mentre non sono mancate negli ultimi tempi, le poesie d’occasione “sulla guerra”, Moio va decisamente da un’altra parte. La sua guerra è, semmai, proprio rivolta al senso comune semplificatore che dà le parole per scontate. Questa mossa è solo apparentemente evasiva. Se si tratta di manutenzione del linguaggio, di recupero sperimentale delle parole che «non / sanno / più / giocare», allora è un intervento sulla base, sul modo di sentire (le structures of feeling). Un intervento prioritario, come dire: prima leviamoci gli stereotipi , azzeriamo le retoriche e così poi potremo ragionare.

2 pensieri riguardo “Giorgio Moio va “al fronte””

  1. Caro Francesco, come pensavo, il mio cuore ha gioito nel leggere questa tua recensione. Hai compreso, a par tuo e dall’alto della tua autorevole competenza, che il fronte di guerra per cui ho “arruolato” il mio testo, è in difesa del linguaggio che non vuole e non deve sottomettersi allo stereotipo culturale in voga e alle sue misere proposte pacifiche, dove la cifra più alta è una vieta mercificazione e fasulle certezze ipnotiche.
    C’è anche una velatura politica; eh, sì, la politica ci sta sempre nei miei testi: mentre da più parti si vuole fermare un conflitto bellico inviando al fronte armi e armi e armi, io nel mio piccolo ci mando la parola, la poesia, ma non pacifica. Ancora grazie, caro Francesco. Un caro saluto. Giorgio

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  2. Eh sì, Giorgio, la parola è un’arma potente ed è bello essere compresi da un critico di quel calibro. Continua a combattere così, come sai fare.

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