C’è logica e logica. Anche quando parliamo di “mercato” diciamo che ha una logica, che è quella del profitto e a seguire della diminuzione dello spazio pubblico, del lavoro precario e via deducendo per li rami di quelle leggi di ferro. Poi, però, c’è la logica che vorrebbe ragionare nel miglior modo togliendo spazio agli impulsi contraddittori e alle nozioni confuse e mitiche, nonché agli assunti presunti indiscutibili come quelli di cui sopra.
Ci aiuta a districarci tra le logiche il libro di Giampaolo Barosso, pubblicato dall’editore Odradek, sotto al titolo già in sé programmatico Per una civiltà della consapevolezza e della decisione in comune. Barosso è uno strano intellettuale, davvero a tutto campo, ha lavorato perfino nell’ambito del fumetto disneyano, da cui l’immagine in evidenza, e soprattutto ha fatto parte della Scuola Operativa Italiana ‒ come ricorda nell’introduzione Felice Accame che delucida alcune questioni sui contorni e le ortodossie di questa tendenza (altri contributi in proposito un lettore curioso li troverà nel catalogo dell’editore Odradek).
Una premessa metodologica la possiamo ricavare dallo stesso Barosso, quando parla della “alternativa operativa”:
ogni nostro contenuto di pensiero, e il pensiero stesso, non rispecchiano affatto qualcosa di dato nella “realtà”, già di per sé articolato nel modo in cui ne parliamo, ma è prodotto di nostre operazioni, dalle quali risultano, per una certa via operativa, il mondo osservativo, sino al fisico e allo psichico, e per un’altra, il mondo categoriale (ivi compresi atteggiamenti e valori).
L’analisi dei processi mentali comporta due conseguenze decisive che vanno a caratterizzare anche questo libro: una critica dei Valori (la “valorificazione” diventa un’attività tutta da ricostruire e non da prendere per buona di primo acchito) e una prospettiva pragmatica larga, appunto a tutto campo, dove nessun ambito dovrà sembrare alieno.
Preciso che il libro è postumo ‒ l’autore è scomparso nel 2014 ‒ ed è composto da saggi scritti nel corso degli anni. Il primo saggio è quello che dà il titolo al libro ed ha il contenuto più propriamente politico. “Consapevolezza” e “decisione in comune” appaiono come le direttrici di un’utopia democratica, di una organizzazione di autentici cittadini. In sintesi, un lucido e condivisibilissimo programma:
Noi prospettiamo infatti una situazione sociale dove i membri del gruppo sociale e di tutti i suoi possibili sottogruppi, a parte ogni altra loro peculiarità individuale o di gruppo, dispongano del più alto grado di consapevolezza operativa, relativa non solo al mentale ma ad ogni campo del loro operare, e considerino il possesso e l’incremento di tale consapevolezza come valore, sia in sé, sia come strumento di cui avvalersi nel porre i criteri per le decisioni da cui dipenderà lo svilupparsi della situazione sociale; dove tali decisioni siano prese non più da questo o quel ristretto gruppo di potere, ma in comune dall’intera collettività sociale; dove questa possibilità di partecipazione decisionale sia a sua volta sostenuta come valore; dove criterio delle decisioni sia in primo luogo che queste determinino uno sviluppo della situazione verso sempre maggiori consapevolezza e decisionalità comune; dove sia questo obiettivo a suggerire i modelli organizzativi, dell’economia, delle istituzioni sociali e politiche, ecc.
Non mancano le critiche al comunismo ufficiale e anche al movimentismo aggressivo di quegli anni (lo scritto è datato 1970), a quelli che Barosso chiama i «giovani “rivoluzionari” in casco e bastone, ma speriamo ottimisticamente che sotto quei caschi si celino menti».
Polemica, però, che si svolge senza toni parenetici, bensì sulla base di un individualismo capace di capire che gli conviene il “bene comune” («anche se individualisti, anzi forse proprio in quanto tali, ci interessa il sociale»). Tant’è che il secondo saggio (Lettera sulla morale) insiste proprio sulla insussistenza della morale e sulla sua radice per forza religiosa (cioè autoritaria) in qualsiasi modo si voglia imporre. Il laico semmai, potrà ragionare sulla base elementare del maggior Bene/minor Male e ricavare come punto di orientamento il Valore-Pace, magari sull’antico modello di Diogene («Diogene, con il suo spirito d’indipendenza nei confronti di checchessia, e in particolare nei confronti dei Potenti e di ogni Convenzione, Uso e Costume, con la sua coerenza nel mettere in pratica l’idea di libertà tramite la povertà, con il suo cosmopolitismo e comunismo radicale»), cioè del cinismo “giusto”, non di quello che impazza nel liberismo attuale ‒ da confrontare utilmente con la Critica della ragione cinica di Sloterdijk.
Infine, dopo il saggio “linguistico” (Una teoria universale del significato), basato sulla dialettica tra l’intenzione del “Significatore” e i polisensi degli “Interpretatori” dovuti ai diversi livelli del linguaggio “in senso largo”, troviamo un ultimo contributo piuttosto impegnativo: è quello anche cronologicamente più tardo, intitolato Le mie affermazioni, che riguarda il perentorio rifiuto del modo affermativo o, per meglio dire, della “adesione all’affermato”, in quanto modo presuntuoso e prevaricante. Qui Barosso si trova a rasentare le correnti del debolismo e del decostruzionismo, col rischio di finire nel vicolo cieco di dover affermare il rifiuto dell’affermazione.
È vero che, per quanto riconosca che «ogni nostro atto mentale è un delirio», l’autore poi ammette che di deliri ce ne sono di due tipi alquanto opposti, distinguendo «tra delirio cretino e delirio intelligente, tra delirio sano, buono o innocuo e delirio malsano, cattivo, pernicioso». Che poi sia rintracciabile nella letteratura una forma di espressione meno pretensiosa è cosa che andrebbe sottoposta a una attenta disamina, perché a me sembra che spesso la letteratura sia a sua volta ben affermativa e tanto più quando lo è subdolamente sotto le vesti di un racconto esemplare o di una emozione incontrollabile. Fermo restando che il punto di vista di Barosso è un buon avvertimento a tenere gli occhi aperti e a non esagerare in adesione, possiamo stare all’indicazione dell’umorismo che veniva suggerita nel primo saggio con «quella componente fondamentale della civiltà che auspichiamo, cioè il senso dello Humour». Corredato dalla nota:
L’analisi operativa dell’umorismo mostra come questo si costruisca su un rapido ribaltamento di valori, una caduta improvvisa di valore; esso costituisce pertanto un efficace antidoto alla cristallizzazione dei valori prodotti, alla loro assolutizzazione, sacralizzazione (si noterà come queste si accompagnino invece ad una situazione emotiva tesa, drammatica, antitetica all’umoristica); allenarsi allo svilimento dei valori, propri e altrui, applicandovi l’operare umoristico, cioè ridendovi su, può essere utilissimo per la loro consapevolizzazione, in virtù dell’effetto, di per sé salutare, del distaccarsene per un momento con rilassatezza.
Un contrappeso costante, una pratica salutare di igiene linguistica e ideologica.