Un intervento di Antonino Contiliano sull’Infinito di Leopardi

In questi giorni gira in TV un orrendo spot con una banalissima lettura dell’Infinito. Risolleviamoci con questo saggio breve inviato da Antonino Contiliano.

E se un giorno per l’infinito leopardiano girasse “0 = ∞”, o “∞ ↔ 0”?

 

Se le grandezze evanescenti o infinitesimali della logica matematica hanno reso possibile e paradossale la scienza stessa dei numeri e della natura materiale delle cose, cui si applicano, e fino alla formula delle grandezze come «0 = ∞», è irragionevole logica estetica pensare (in analogia) di utilizzare la stessa formula concettuale per cogliere lo stesso potenziale informativo colto dal linguaggio della poesia con la logica paradossale degli stessi ossimori (preso, non preso; grande, non grande) che ne alimentano la creatività?

La dimensione della creatività della poesia non è meno estesa e intensa di quella dei concetti della logica matematica. In fondo, crediamo, che la partita tra i due sia giocata sulla flessibilità o plasticità dei concetti di dimensione, estensione, intensività, ritmi, misura maggiore, minore eguale, assenza, niente, nulla. Non tutti i concetti, poi, sono determinati da parametri che geometrizzano e aritmetizzano il mondo fisico, psicofisico e intellettuale. Esemplare, in tal senso, sembra, sia la vita e l’esistenza del concetto di infinito. L’evoluzione storica delle forme e delle teorie teoriche e pratiche, che si sono occupate dell’“oggetto” infinito, infatti ne indicano le origini sin dalla ricerca e dalle riflessioni della scienza e della filosofia occidentale e orientale (dalla cultura matematica indiana fino alla nostra, indicativa è così la storia del concetto ‘0’ e della semantica variabile che l’ha seguito dove è stato correlato al concetto di infinito. Per l’Ottocento, ricordiamo il nome del matematico e logico Augusto De Morgan. Nome cui, chi scrive, per inciso, come dal libro Asimmetrie ibride nella critica di Antonino Contiliano (CFR, 2014) di Francesca Medaglia, fa ricorso in ordine al tema. Ma, per quel che qui interessa, prendiamo spunto da L’infinita scienza di Leopardi di Gaspare Polizzi e Giuseppe Mussardo (Scienza Express, 2019), un’opera coautoriale. Un libro dove i due, tra gli studi, le riflessioni, le opere del poeta e gli “Approfondimenti” seguono il cammino di Leopardi fino alla creazione della poesia L’infinito e alla conclusione sullo stesso come «illusione ottica». Un vano fantasticare senza limiti dell’immaginazione. Nel corso delle loro analisi, Polizzi e Mussardo, individuano i punti dove Leopardi scrive che l’infinito non può non essere che un sogno, o un’idea, l’ipotesi di una fantasia senza limiti. È nulla, niente (il suo simbolo estetico, allora, formalizzato, non potrebbe essere lo schema nella forma dello “0 = ∞”, che abolisce ogni limite tra i due tipi di grandezza?). Passo dopo passo, il libro poi spiega i pensamenti teorici e pratici del poeta in ordine alla complessità dell’idea dell’infinito e dei temi a supporto, quali quelli delle grandezze fisiche e psico-fisiche reali, equiparate o meno a quelle della continuità o discontinuità delle grandezze geometriche e aritmetiche, o al maggiore e minore dei desideri del piacere e della felicità, la divisione e la distribuzione (alquanto complessa e problematica) dei beni materiali e spirituali.
Sulla divisibilità degli indivisibili, gli infinitesimi o grandezze evanescenti, basterebbe vedere la linea del pensiero aristotelico, cui lo stesso Leopardi poi – mediante le letture fatte su «gli Elementi di fisica sperimentale di Poli e Dandolo» e sulla «Filosofia morale di Francesco Maria Zanotti che compendia (corsivo nostro) l’Etica Nicomachea di Aristotele sulla felicità» (L’infinita scienza di Leopardi, p. 143) –  si ricollega per vedere come sul versante della scienza e della poesia la riflessione sulla divisione del sapere e delle due estetiche non è di così rigorosa coerenza. E nell’attività creativa, come lo sono matematica e poesia, il matematico René Thom non ha affermato che ciò che «rigoroso è insignificante»?
E la logica scientifica dell’inferenza deduttiva e della stessa specifica ‘induzione’ aritmetica non hanno poi precedenti negli esempi illustri del paradosso del mentitore (quel soggetto che se dice di mentire, contemporaneamente, dice sia il vero che il falso), o negli assiomi indefiniti (zero, numero naturale e successore) e nell’«induzione» di Giuseppe Peano dei numeri finiti e infiniti, o nella teoria degli insiemi fino al paradosso dei concetti che contengono o non contengono se stessi come parti di B. Russell?
E cosa dire della certezza sulla “funzione d’onda” nel mondo della fisica quantistica; la funzione cioè che lega la determinazione della posizione e della velocità del corpo dell’elettrone alla certezza approssimata del principio di indeterminazione di Heisenberg («imprecisione sulla posizione x sull’imprecisione sull’impulso = h» (‘h’ è la costante di Planck; l’invariante che rimane sempre tale, qualunque sia la massa delle particelle cui viene applicata)?
E questo universo scientifico semantico e pragmatico è più bello o meno bello dell’informazione paradossale della poesia L’infinito di Leopardi che mette in versi l’equivalenza, crediamo, paradossale, tra il sempre del tempo e l’eternità come durata? Il «Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / […]» dell’incipit della poesia, il «Sempre» – che è un operatore logico della durata temporale infinita/indefinita –, infatti, come intervallo, è associato all’infinito silenzio (altra durata infinita/indefinita), che «[…] mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva, e ’l suon di lei […]». Due durate spazio-temporali che, infinite-indefinite, intervalli limitati-illimitati, si fondono e si azzerano poi nell’evanescenza «E ’l naufragar m’è dolce in questo mare». E qui non è forse il caso di dire che la formula estetica «0 =∞» della logica matematica sia trasportabile per qualificare pure, formalmente, l’infinito potenziale-attuale leopardiano? Sebbene nella forma “aggettivale” (“infinito silenzio”), come si legge nel libro (L’infinita scienza di Leopardi) di Polizzi e Mussardo, il cambio di regime non ostacola tanto l’operazione migrante. La parola infinito (sfumata) nella poesia del Recanatese, infatti, è come un’astrazione sfumata che caratterizza e definisce anche gli enti “non quanti” (direbbe il Galilei della nuova scienza matematica-fisica, e presente alle letture di Leopardi), sebbene diverso appaia il livello di realtà e diversa la funzione. Sì che, allora, logica estetica a venire, all’Infinito di Leopardi non potrebbe non essere applicata (due negazioni nella logica classica affermano per assurdo!) anche la formalizzazione “0 ↔ ∞” (↔: se e solo se): il “Sempre” e il “di là di quella” del pensiero leopardiano.
Ora, non è improbabile che il poeta privilegiasse la logica estensionale e quella dell’astrazione dell’infinito potenziale di Aristotele. Una connessione continua tra esperienza, astrazione razionale-matematica e immaginazione lungo i bordi del salto tra potenza e atto. Un richiamo continuo all’astrazione – come si legge nel libro L’infinita scienza di Leopardi – non ignorato, come scrivono i due coautori, dallo stesso Italo Calvino (Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio). Calvino, lo scrittore della “poesia logica”, scrive infatti che Leopardi nella poesia L’infinito parte «dal rigore astratto d’una idea matematica di spazio e di tempo e la confronta con l’indefinito, vago fluttuare delle sensazioni» (p. 136); il vago che ha a che fare con le cose, gli spazi e i tempi dell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi. E se da un lato un rimando tocca il centro delle astrazioni concettuali sulle grandezze quantitative infinitesimali (o nulle) della ragione calcolante, l’altro è quello delle astrazioni sulle grandezze “vaghe”, l’estetico-percettivo dell’immaginazione fantasticante. L’indefinito-indeterminato, come si legge nello Zibaldone di Leopardi (1° agosto 1821), diventa così il protagonista nel contrasto con l’infinito e gli infinitesimali; anzi la parola infinito, oltre che nel titolo, compare una sola volta, e solo – come si legge – in forma «aggettivale»: è l’«infinito silenzio» del verso 10. È l’incipit che scorpora la categoria dell’infinito «sia dall’infinito temporale che da quello spaziale» (p. 134) e dagli elementi del “Numero”, e decide il passaggio nell’accezione fisica che configura il nulla infinito» (ibid.).
Il passaggio al “nulla infinito”, tuttavia, non fa smettere di pensare che matematica e poesia possano avere forme astratte nel pensare il “comune” infinito. Come scrive Alain Badiou, se la «matematica non è per nulla la scienza della differenza tra un fogliame autunnale e un cielo estivo» (Elogio delle matematiche, 2017, p. 26), essa afferma che quel comune gode di una molteplicità di forme espressive e concettuali nel particolare di ogni singolarità linguistica al suo limite. E se la matematica – continua Badiou –, diretta al reale, grazie all’astrazione, «opera all’esterno della singolarità linguistica» (ivi), la poesia, non meno debitrice nei confronti delle astrazioni di trasposizione, di analogie metaforiche, spinge «la singolarità della lingua fino al limite, sino all’essere fuori-della-lingua» (ibid.).

Marsala, 29 novembre 2019

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