Palladini, un anticanone in versi

L’ultima raccolta di poesia di Marco Palladini colpisce per la sua varietà stilistica. Le modalità cambiano ad ogni lancio di dadi. Palladini ha risolto il problema dell’argomento (di cosa parlare? di cosa oggi vale la pena di parlare?), ponendo ad oggetto di ciascun testo un altro autore. E poiché l’oggetto cambia da un testo all’altro, sul filo delle dediche si svolge l’arco di diversissime soluzioni formali: c’è verso breve e verso lungo, verso rimato e verso non rimato, c’è l’acrostico, dove il nome del dedicatario guida la danza dei significanti, e c’è il prosimetro, decisamente discorsivo. Una pluralità in movimento ben descritta nella bella introduzione al libro scritta da Antonio Francesco Perozzi che evidenzia il succedersi di oltretutto di «tautogrammi», di «meccanismi di reiterazione sintattica», di «asindeti incontrollabili», di «micro-interventi sui vocaboli», e così via.

Si potrebbero distinguere i componimenti dove la prossimità al dedicatario conduce a una sorta di mimesi linguistica, e sono allora i “remix” a Villa, Spatola, Céline; o anche l’acrostico che ricorda Lunetta, il quale aveva fatto proprio un libro di tutti acrostici… Vale la pena di citarlo, in quanto proprio Lunetta è stato il miglior maestro di varietà stilistica. Il titolo è Appartenenza:

Muovendosi malmostoso mira mancanza mondo migliore
Affilate alternative assilla, associandosi attende autocritiche
Ragiona, riflette, reitera, rimastica raffinate rabbie
Indegna informe Italia indica in impeccabili invettive
Ostenta ottime ossessioni ovvero oppositivi oblii

Lui lancia linee, lucidi legami, lasciti liminari
Un universo ultimo, umanamente ubriaco umetta
Non nasconde noie, non nega nichilismi nemici
Esperisce etiche esigenti ed esuli esecuzioni estetiche
Tassative trame tradisce, tritura tornaconti tapini
Testi taglienti tracciano tuttologiche tristi tendenze
Avvalorando appartenenza all’antiretorica avanguardia

All’altra polarità appartengono, i testi più discorsivi, dove l’autore dedicatario assume il ruolo di personaggio e magari viene ripreso in un aneddoto dell’incontro (esempio: «Chiesi a un poeta chi era un poeta / e Nanni mi rispose che era soltanto qualcuno / che sapeva combinare bene insieme le parole»; è Balestrini secondo Palladini). Può essere chiamato in causa alla seconda persona («te lo dissi molti anni or sono», così si rivolge a Luigi Rigoni in Missiva postuma a Luigi), con una apostrofe che tende al dialogo sull’estrema soglia, oppure alla terza persona, ma molto ravvicinata: «E così il vecchio ragazzo se ne è andato» (Il sogno di Valentino, che è Zeichen); oppure: «Amico dei poeti? Anche, certo e per cinquant’anni / ma soprattutto Carella è stato un grande poeta / senza avere mai scritto un verso» (nel testo dedicato a Simone Carella).
Comunque sia e in ogni modo, a me pare che la raccolta, legata da questo filo del ricordo, costruisca soprattutto un personale anticanone, aperto tra poesia e teatro. Punti d’appoggio sono Carmelo Bene, non a caso posto in apertura, «puro artifex / del depensamento»; la beat generation, qui rappresentata da Ferlinghetti, richiamato con il “tu” per essere omaggiato al passaggio dei cento anni («E dunque, caro Lawrence-Lorenzo, buon compleanno per non esserti arreso ai cascami del mondo e dell’età»); e poi un buon gruppo di poeti italiani eslege e fuori delle etichette: Emilio Villa, Mario Lunetta già citato, il funambolico Arrigo Lora Totino, «ginnico poeta oltreverbale» (acrosticato sotto un titolo che è un buon gioco di parole: A Lora allora). Qua e là alcuni Novissimi, ma mi sembra in posizione marginale.
Il titolo della raccolta è doppio: Via memoriæ/Via crucis (l’editore è Gattomerlino). Effettivamente i testi sono in massima parte votati “alla memoria”, al ricordo di chi è venuto a mancare. Palladini parla, a un certo punto, in presenza di una eccessiva frequenza di scomparse, di una «cartografia delle tenebre». E però, rispetto a questo avanzare inesorabile della scadenza temporale, il testo assume il compito della restituzione, del ridare voce, del rilancio di forze. Dunque è essenzialmente rivolto all’indietro?
Vediamo: tra i componimenti con dedicatario s’insinua un altro tipo di testo, prettamente di argomento politico. Lo dice già il sottotitolo del libro, «tra il poetico e il politico». Se il rapporto con gli autori è di tipo amicale e a volte addirittura di introiezione del linguaggio (nei “remix”, come ho notato), l’orizzonte polemico è essenzialmente di presa di distanza, vuoi che si tratti della colonizzazione delle menti («dentro un outlet del multikapitale: / camminare consumare. Sorridere acquistare / respirare non pensare, disvivere dimenticare»), oppure dell’orrore della guerra, aggiornato secondo le ultime efferatezze proprio in explixcit. Uno dei testi più lunghi e combattuti del libro è quello che fa il bilancio del comunismo, Cent’anni di comunistitudine in coincidenza con l’anniversario del congresso di Livorno («Allora cent’anni di comunistitudine o cent’anni di mostritudine?»). Sembrerebbe allora che i destini storici vadano a corrispondere con i destini individuali, in una amara congiunzione di perdita affettiva e di sconfitta culturale e politica. Senonché, proprio quel testo si chiude con una sorta di augurio, sia pure estremamente incerto:

nondimeno mi augurerei di essere io, tra le ombre del secolo passato, / nel paesaggio di post-rovine, di post-storia del comunismo, a sbagliarmi, / mi augurerei che da qualche parte ci sia un pugno di pugnaci giovani / capaci di andare oltre i cadaveri delle ideologie sepolte / o gli zombi della reazione sempre in agguato / capaci di pensare in termini nuovi alla mutazione / capaci di vedere qualcosa che noi non riusciamo nemmeno ad intuire…

Questo colpo di contropedale identifica precisamente un ipotetico lettore modello di questo testo, uno che smentisca la situazione negativa e riprenda il discorso libertario, così come Palladini ha ripreso i discorsi dei compagni perduti.

07/10/2022

1 commento su “Palladini, un anticanone in versi”

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