Apparentemente il nonsense è il contrario dell’allegoria. Quanto quella promette di arrivare a un senso, sia pure dopo complessi e tortuosi percorsi, tanto questo invece lo nega e lo cancella, nella propria stessa denominazione. Se guardiamo bene, però, il nonsense risulta coinvolto in una opposizione ancora più netta. Poiché la sua giustificazione più prossima è quella del gioco, eccolo allora schierato e in modo radicale in contrasto alla serietà. Tutto ciò che di saggio, adulto, drammatico, tragico o sentimentale è attribuito all’ambito letterario viene annullato dal nonsense. Il Messaggio con la maiuscola è proprio ciò che si trova ai suoi antipodi.
Si potrebbe parlare con Francesco Orlando di “ritorno del represso” e di un escamotage per poter fare in modo consapevole e riverito sotto le bandiere dell’arte e della letteratura quelle libere manipolazioni con il linguaggio che si facevano da bambini. È precisamente il “ritorno del represso nella forma”. Il piacere originario che l’infante si prende con le parole torna a galla un po’ in tutta l’istituzione poetica (le cui regole sono sostanzialmente, “regole del gioco”), ma in modo più eccessivo ed eversivo proprio nel nonsense.
Nel nonsense sono di solito accomunati due livelli operativi diversi che riguardano da una parte i significanti e dall’altra i significati. Sul versante dei significanti, il nonsense finisce per avvicinarsi al calembour, in vari modi: nelle minime permutazioni della parola che ne modificano il riferimento (tipo le “vene vanitose” di Flaiano), nelle ibridazioni come le parole-valigia (dove due termini si sovrappongono l’uno nell’altro; esempio il “riverrun” di Joyce) e, come limite, nell’invenzione neologistica. Sul versante dei significati, invece, possiamo avere le combinazioni improprie che uniscono termini incompatibili, magari provenendo proprio da un gioco (quale quello surrealista del “cadavere squisito”) . Mi è capitato di definirla anche una “sintassi dell’incongruo”, perché è caratterizzata dal fatto che la struttura sintattica rimane al suo posto con costituzione normale e sono invece le qualità (i campi semantici) degli elementi messi di seguito che non quadrano tra di loro. Su questo lato il nonsense funziona attraverso l’eterogeneità degli accostamenti (è allora una forma di ibridazione) e può assomigliare a un anacoluto, in quanto la frase iniziata su di un livello va a finire in un altro – come si diceva, surrealisticamente: “il cadavere squisito berrà il vino nuovo”. Un anacoluto continuo e sistematico.
In fondo si potrebbe vedere nel nonsense solo l’estremizzazione dei procedimenti usuali della poesia, le omofonie e gli spostamenti metaforici; ma, per l’appunto portati a un grado massimo e del tutto fuori della funzione di servizio (sostanzialmente di abbellimento ornamentale) che sono chiamati usualmente a svolgere. Ma intanto tutti coloro che inneggiano alla creatività artistica dovrebbero riconoscere nei nonsense il più alto grado di libertà creativa (fino al punto da pretendere a una nuova lingua, come la “zaum” dei futuristi russi). Senonché, nello stesso tempo, a questo exploit corrisponde la perdita delle prerogative del ruolo culturale che viene riconosciuto allo scrittore proprio in virtù della comunicazione di un plus-Senso (con la maiuscola), qui ridotto a minus- nella sua sottrazione irridente.
Tuttavia l’interpretazione del nonsense come mero divertimento comico a me pare riduttiva. Quando Palazzeschi intona il suo “lasciatemi divertire!” è perché ha avvertito una regressione epocale del prestigio poetico, Il gioco del nonsense può avere conseguenze serissime nella letteratura, dalla patafisica al dadaismo, al già citato surrealismo. Così si esprime Breton nella Antologia dello humour nero a proposito di Lewis Carroll, un indubbio precursore – e già battendo il tasto del “represso”:
La caratteristica di questa soluzione soggettiva è di riflettersi in una soluzione oggettiva, precisamente d’ordine poetico: lo spirito, alle prese con difficoltà di ogni genere, può trovare una via d’uscita ideale nell’assurdo. Il gusto dell’assurdo riapre all’uomo il regno misterioso dell’infanzia. Il gioco dell’infanzia, come mezzo ormai smarrito di conciliazione tra l’agire e il sognare ai fini della soddisfazione organica, a cominciare dal semplice «gioco di parole», si trova così riabilitato e nobilitato. Le potenze che presiedono al «realismo», all’animismo e all’artificialismo infantili e che combattono per una morale senza costrizioni, dopo essersi assopite tra i cinque e i dodici anni, sono passibili di un ricupero sistematico che minaccia il mondo severo e spento in cui siamo obbligati a vivere.
A parte ovviamente un colosso del genere come il Joyce del Finnegans Wake, un altro autore che si avvicina a queste tecniche in modo molto originale è Raymond Roussel (che bisognerà prima o poi riprendere in mano). Roussel assume due frasi dal suono quasi uguale, ma dal significato diverso (ambiguità con minimo intervento) e le pone ai lati del racconto: il racconto non è che il modo di arrivare dalla prima frase alla sua omofona. Commentando questo procedimento (che sarà svelato dopo la morte dell’autore), Michel Foucault ne ha proposto un interessante confronto con la nozione di stile:
lo stile, è, sotto la necessità sovrana delle parole impiegate, la possibilità, mascherata e designata allo stesso momento, di dire la stessa cosa ma altrimenti. Tutto il linguaggio di Roussel, stile rovesciato, cerca di dire surrettiziamente due cose con le stesse parole. La torsione, la leggera deviazione delle parole che ordinariamente permette loro di «muoversi» secondo un movimento tropologico e di far giocare la loro profonda libertà: Roussel ne fa un cerchio impietoso che riconduce le parole al loro punto di partenza per la forza d’una legge costringente. La flessione dello stile diventa la sua negazione circolare.
Indubbiamente il nonsense è un tentativo di sfuggire al logocentrismo; tuttavia, presentandosi pur sempre dentro ad una cornice comunicativa, non può esularne del tutto. Intendo dire che possiamo pur sempre trovare un senso del nonsense. E qui appunto torna in ballo quella allegoria che avevamo inizialmente provvisoriamente congedata. Non per caso: l’allegoria dimostra la sua qualità significativa ridando senso a qualcosa che non lo ha (qui sta anche il suo distintivo utopico). Lo possiamo vedere nel classico recupero delle divinità antiche cui nessuno più crede; oppure nell’accoppiata frequente con la “natura morta”. Così anche le creature del fantastico, che non hanno corrispettivi nella realtà, si confanno all’allegorico. Questo recupero dell’insignificante è ancora più forte nella modernità avanzata, dove magari – come ho mostrato varie volte – si conciliano allegoria e avanguardia. Tanto più quando l’allegoria ha ormai perso la chiave, ovvero il rimando standardizzato tipico dell’inconografia. Allora potremmo considerare il nonsense una allegoria del nulla e del vuoto o una allegoria del gioco come esaltazione del caso.
Domandarsi se il nonsense sia caldo o freddo, inventivo o meccanico è tempo perso, non si scalfisce la sua ambivalenza. Certo emerge quasi spontaneamente dal linguaggio e non può rivelare niente dell’io dell’autore, però gli occorre un soggetto che lo cerchi, lo apprezzi e e lo organizzi; e che provi a significare attraverso il marameo alla significazione. Il nonsense è inesauribile e impersonale, proprio come un gioco. Per certi versi appare oggettivo, è una possibilità che si trova nel linguaggio in quanto tale e abbandonarsi al suo automatismo sembra una forma di alienazione. Eppure, no: la vera alienazione è quando siamo parlati senza saperlo (cioè soprattutto quando ci illudiamo di esprimerci). Molto meglio una alienazione esibita e consapevolmente controllata
10/10/2021