Tra le uscite recenti sulla soglia dell’estate scorsa si fa notare la raccolta delle poesie di Marcello Frixione, un autore appartato ma a mio parere altamente significativo e già in qualche modo “storico”. Frixione fa parte della generazione emersa negli anni Ottanta del Novecento, è stato operativo nel gruppo “K.B.” (Kryptopterus Bichirris), sodale di Durante, Frasca e Ottonieri, venendo coinvolto nelle riunioni del Gruppo 93 e venendo incluso nell’antologia Terza Ondata di Bettini e Di Marco. Tutta la intricata vicenda di quegli anni è stata da poco ripresa e riesplorata da ogni lato in un numero della “Rivista di Studi Italiani” curato da Gabriele Belletti e Ivan Schiavone, che contiene anche contributi del nostro autore.
E ora arriva il libro complessivo, intitolato Naturama (1981-2019), pubblicato da Oèdipus – ormai una scelta editoriale condivisa giustamente da molti autori della ricerca più avanzata – nella collana curata dallo stesso Ivan Schiavone.
Voglio chiarire subito di cosa stiamo parlando. Quel movimento poetico tardonovecentesco è stato caratterizzato da una insistenza sul carattere letterario della poesia: in contrasto con l’impoverimento della lingua nelle comunicazioni di massa, invece di effettuare – come accadeva di solito, anche nelle avanguardie precedenti – un aggiornamento del vecchio linguaggio, qui si è proceduto all’inverso, in senso iper-letterario e iper-retorico. Dato che la lingua dell’attualità era quella dominante, si è evidenziata in vari modi (lessicale, metrico, ecc.) la differenza del testo poetico e attivata una nuova alternativa letteraria con implicita polemica (all’epoca fu acceso il dibattito su questo punto: lateralità o opposizione?).
Di quella alternativa Frixione è un esempio lucidissimo e probante. Il suo linguaggio secentesco e la ripresa delle forme chiuse, delle rime, dell’endecasillabo e quant’altro (l’allocuzione alle ninfe, per esempio) agiscono con grande rigore a garantire un andamento non casuale, una tessitura che si tiene con grande coerenza e che, in molti casi di forme brevi, comporta la massima concentrazione. Porto come riprova alcune terzine: «a radi tratti in rima le dipinge / compedïando mènoma sinossi / d’algebriche virtù di diacce ninfe»; «le vedi congelarsi in una vena / di calcedònio còlano in dendriti / di fàvole di spettri a farsi scena»; «come potrebbe un inatteso punto / comprèndere la forma che mi punse / rendèndola in un punto alla memoria?».
Subito però va precisato che questo ri-uso non è affatto nostalgico (come se l’unica poesia fosse quella del lontano passato ormai perduto e disatteso), ma nemmeno prettamente postmoderno. È vero che il postmoderno ha proclamato la riscrittura a piacere, però per l’appunto – soprattutto in Italia – con la chiave della piacevolezza. Il ritorno all’antico di Frixione non è affatto piacevole, in quanto pesca in una distanza che rende ostico il linguaggio e in tal modo non facilita per nulla l’emozione immediata. Ma c’è di più: nell’imitazione (se si vuole, nel pastiche) non c’è soltanto la dimostrazione di abilità tecnica (guardate: so scrivere come Marino!); nell’imitazione Frixione insinua consapevolmente una flessione sia pur lieve, una diffrazione sia pur minima e tuttavia comportante l’incrinatura dello scenario.
Intanto, tra tutti i passati possibili, la scelta del barocco e di Marino (coinvolto in perfetti giochi variantistici) è assai densa di significato. Il manierismo che vi si esercita è, infatti, un manierismo al quadrato. Ciò che interessa Frixione è l’alto tasso di artificiosità che esclude contenutismi ed emotività. Egli stesso parla volentieri di “oggettività” poetica e abbiamo già visto alcuni riferimenti al freddo e altri se ne potrebbero estrarre alla pietrificazione e al trucco esibito («metàfora, illusion, trucco nel trucco»). Anche le ninfe, richiamate in servizio nei loro nomi arcadici, sono – come sopra – «diacce ninfe». Che in questo irrigidimento meccanico finisca implicato proprio il tema erotico mi pare indicazione non da poco, rispetto ai titillamenti del lettore.
Ancora, dal punto di vista metrico, l’endecasillabo classico viene anche aggregato in formazioni lunghe, magari con l’aggiunta di un settenario:
(che di catena in dono si trasforma) pur trasfiguro e faccio
Oppure con la precedenza di un quinario:
ma in tanta massa che a te s’aggrava, e m’imprigiona e assilla
che può ricordare alcune lunghezze sanguinetiane, come pure l’uso di parentesi (e confermano l’ascendenza ben tre testi dedicati a Sanguineti nella parte finale del libro).
Il valore quindi non consiste nel puro e semplice rifacimento. Soprattutto fanno testo (e non solo per modo di dire) gli slittamenti nell’attualità. Il mondo d’oggi, di botto, si affaccia dalle falle della mascheratura antiquaria. Come per gioco, sì, ma in modo dirompente rispetto all’aura poetica. Quello che mi è sempre rimasto in mente è l’incipit: «ba ba ba bàciami mia clori» che mescola inopinatamente al corredo barocco la canzonetta di Rabagliati. Ma spesso queste cadute repentine stanno nell’explicit; si può vedere lo spot di una ninfa: «anadiomene. dirime la spuma / imbonendo l’incanto dell’ascella. / di tersi membri addita bagnoschiuma». Oppure questo icaro: «eccede i patri varchi / ma per l’incàuto uso / dei simulati vanni // li squaglia, e batte il culo». Più che parodia, potremmo definirla una ironia dell’anacronismo, comunque una forma di obliquità (“obliquo” è termine che compare in vari punti). E potremmo dire che i due livelli cronologici si demistificano reciprocamente: l’attualità smaga la poesia antica mostrandone tutta la distanza ormai incolmabile, nonché il colore posticcio; tuttavia, a sua volta, la poesia antica smaga l’attualità mostrando altrettanto false le figure “divistiche” dell’immaginario collettivo che hanno sostituito le divinità d’antan. Trattasi in entrambi i casi di simulacri. Nessuno dei due livelli riesce a guadagnare seria autonomia; e il risultato è quello di un riconosciuto fallimento:
se in certi giochi manco un referente,
oscillo e mi dibatto fra scacco e
fra semàntica – e, vedi, non mi salvo.
Il titolo del libro, Naturama si richiama a un album di figurine e la raccolta infatti è costruita per pezzi, anche molto brevi. Pezzi che, per altro, provengono da stratificazioni diverse, partendo dai primi anni Ottanta fino ad oggi. Aiutandosi con l’ampia nota finale, ci si può anche provare a sbrogliare la compattezza della raccolta cercando di coglierne l’evoluzione che sembra orientarsi dall’originaria operazione iper-retorica che si è detta verso oggetti di tipo scientifico (ad esempio la paleontologia degli uccelli) o a rispondere a sollecitazioni di altri artisti.
Per quanto mi riguarda, il libro di Frixione ha rappresentato una rilettura degli anni migliori. Però, capisco che ci potrebbe essere una obiezione: d’accordo il valore storico nella fine Novecento, ma che valore ha questa poesia oggi, quasi un trentennio dopo? È ancora proponibile quella linea di ricerca? A me verrebbe voglia di rispondere confermando il giudizio di uno dei primi critici, Filippo Bettini, nella introduzione a Diottrìe (1991), cioè la «convinzione di avere a che fare con uno dei poeti migliori». L’insegnamento che ancora può dare a distanza di tempo il nostro Friperione (è un suo modo scherzoso di scrivere il suo cognome sciogliendolo come se avesse un’abbreviazione da messaggini) è quello di una attenzione microscopica alla composizione del verso e ad un corretto uso dei “poetemi”. Che già non è poco. Ma soprattutto l’estrema cautela verso le infatuazioni spirituali della poesia. Volete lo spirito, eccolo:
l’alcol drena la carne la compatta
come salacca etile «io» disidrata
onde reso reperto ed artefatto
quasi etilista ebbro mi accomiato.
Aggiungi una accurata miscela di cultura e di ironia, e avrai una sostanza ancora oggi assai rara e preziosa.
E poi, per dirla in una battuta, molto meglio marinisti che merinisti!
06/09/2021
Pienamente condivisibile
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