Tutto su Ottonieri

La giovane studiosa Giovanna Lo Monaco, già segnalata su “Critica integrale” per il suo libro sul teatro della neoavanguardia, ha pubblicato ora, per le edizioni ETS, un lavoro critico dedicato a Tommaso Ottonieri; titolo: Tommaso Ottonieri. L’arte plastica della parola. È una monografia completa, ovviamente provvisoria in quanto l’autore è in piena attività, fornita di una bibliografia ampia e dettagliata sia delle opere che dei contributi su di esse, che offre perciò un ritratto a tutto tondo di un autore che si conferma come una delle figure più rappresentative, in verso e in prosa, del panorama contemporaneo, di quello che resta della letteratura al di là della produzione stagionale per il mercato e del dilettantismo fecebookkista.

Dell’importanza della scrittura di Ottonieri sono convinto non da oggi (ricordo che già nel 1985, chiamato in Danimarca a parlare del romanzo italiano, portavo con me Dalle memorie di un piccolo ipertrofico). Lo studio di Giovanna Lo Monaco ha il merito di andare a fondo nell’analisi di un percorso che da quell’Ipertrofico, lanciato da una prefazione di Sanguineti, arriva ai Geodi, cioè, per seguire l’autrice del libro, da una prova sotto il segno della “liquidità” («un miscuglio di generi e stili difficilmente isolabili») a un movimento tendente alla «mineralizzazione del soggetto», seguendo varie tappe, in un magma di sperimentazioni spesso complicato da ricomposizioni e riscritture, trasferimenti e riprese, un «continuo “rimescolamento” dei testi» che offre all’autrice del libro il modo di esercitare la precisione della pratica filologica.
L’itinerario ottonieriano è scandito in capitoli secondo diverse fasi di poetica senza distinzione di genere letterario e questo giustamente in quanto nell’autore in esame i confini tra poesia e prosa si assottigliano. Se è vero che Ottonieri, col Piccolo ipertrofico nasce prosatore e anche in seguito inclina verso la narrativa riprendendo a modo suo anche alcuni generi di consumo, tuttavia la sua scrittura è da subito orientata verso procedimenti di reinvenzione e manipolazione della lingua, quindi più propri della poesia. Quanto poi alla produzione in versi, non sembra combaciare mai del tutto con la tendenza, che pure ha avuto la sua rilevanza negli autori a lui coetanei, di ripresa delle forme chiuse o del lessico obsoleto (quell’avanguardia girata all’indietro che recupera la lingua perduta del letterario per rivolgerla contro la società dell’eterna stagnazione), in quanto rilevanza pari se non maggiore ha, nelle sue operazioni, il confronto serrato con la lingua del presente che accompagna la merce. Qui Giovanna Lo Monaco marca giustamente un’altra differenza, quella con il “pulp”, poiché Ottonieri, soprattutto nella fase centrale, all’altezza di Crema acida, si rapporta all’universo del supermercato e della réclame non solo nelle tematiche e nell’immaginario suo proprio (magari virato alla fantascienza e all’horror) ma soprattutto nel linguaggio, che viene però filtrato ‒ a differenza della semplice parodia ‒ mediante lo stile:

Al contrario, il linguaggio di Ottonieri, come si è osservato, non si lascia riassorbire dal linguaggio invalso nella comunicazione, ed anzi, secondo le modalità di contaminazione linguistica già sperimentate sin dai primi testi e poi con i brani de L’album crèmisi, destruttura tale linguaggio servendosi soprattutto del pastiche e della sovversione della sintassi ordinaria, di uno stile fortemente espressionistico, barocco, che si propone come cifra stilistica grazie alla quale stabilire un forte scarto rispetto alla “norma mediatica” proprio nel mentre questa viene assorbita dal linguaggio letterario. Inconfondibile e immediatamente riconoscibile è, in effetti, la scrittura di Ottonieri, tuttavia la forte caratterizzazione di questa scrittura non porta a riaffermare la presenza dell’autore all’interno del testo, all’affermazione di uno stile come firma personale — per poi attivare con ciò, magari, anche una mitografia autoriale — bensì a fare dello stile l’elemento rivelatore di una distanza rispetto al reale.

E siamo al cuore della questione, il triangolo merce-corpo-lingua (per dirla con una eco da Pagliarani), oppure, se preferite, alla “produzione del soggetto”. Questo il nodo su cui tutta la scrittura di Ottonieri si applica da capo a fondo, con tutte contraddizioni del caso. Giustamente il libro riprende nel sottotitolo la “lingua di plastica”, secondo l’indicazione teorica dell’autore sotto l’ortonimo di Pomilio; e ne svolge il duplice senso: da un lato la plastica è il massimo rappresentante dell’omologazione e del degrado planetario, ma dall’altro lato la plasticità della lingua è il margine di libertà, la risorsa dell’intervento deviante, dello straniamento del già noto. Insomma:

In questo senso possiamo dire che l’alchimia della parola, individuata nel primo tempo della produzione ottonieriana, in sostanza si “plastifica” in uno stile che, mentre assimila la lingua alla plastica, della merce, plasticamente la rielabora con esiti di radicale straniamento.

Così l’io, anche quando ne emergano tracce autobiografiche, è sempre fin dall’inizio un io, per così dire, “psicoanalitico”, cioè esposto alla destrutturazione.
In questo approccio a testi di non facile lettura, Giovanna Lo Monaco ‒ confortata dall’accompagnamento della riflessione critico-teorica dell’autore stesso, la cui consapevolezza progettuale ha un rilievo decisamente cospicuo ‒ mette a frutto un ottimo apparato metodologico e doti di critico letterario (per favore, datemi il femminile di “critico letterario”!), anche là dove il ritratto monografico si staglia nella ricostruzione della prospettiva storica: lo sfondo originario del movimento del Settantasette, l’atmosfera del postmoderno con le sue varie teorizzazioni, il dibattito attorno all’alternativa letteraria degli anni Ottanta-Novanta, tra Gruppo 93 e Terza Ondata. In quest’ultimo caso, la distanza temporale aiuta a uscire dalle contrapposizioni di allora, ad esempio riguardo alla differenziazione dalla neoavanguardia e alla divisione tra “lateralità” e “opposizione” (ma se non ricordo male all’epoca Ottonieri preferiva “alterità”). Probabilmente, ormai, l’arretrarsi del fronte comporta il cadere di certe acrimonie terminologiche. Come scrive Giovanna Lo Monaco:

Tale forma di resistenza si realizza in sostanza con la conquista di una rinnovata autonomia del letterario rispetto alle logiche dominanti della cultura e della società contemporanea, a partire dallo spazio marginale ad esso riservato dal sistema culturale, che preserva al contempo, ostinatamente, una costante tensione eteronoma, un costante riferimento al “fuori”, all’“altro da sé”, fino alla concezione di una scrittura intesa come creazione di uno “spazio sociale”. Si rinnova in questo modo l’istanza utopistica delle avanguardie ‒ passata attraverso l’esperienza dei movimenti controculturali dagli anni Settanta ai Novanta ‒ e, di fatti, è la tradizione dell’avanguardia ad essere rivisitata e costantemente “reinventata”, in primo luogo, da Ottonieri. 

Che sia il segnale di una nuova generazione critica che, non arresa alla mera sociologia da cultural studies, riprenda a ereditare ‒ come Šklovskij asseriva che dovrebbe avvenire sempre ‒ dagli zii un po’ strani? Glielo e me lo auguro.

06/04/2021

1 commento su “Tutto su Ottonieri”

  1. Segnalo, per chi volesse almeno un assaggio di quanto viene esposto in questo articolo, un video che mi è capitato di trovare recentemente su Youtube: una lettura dello stesso Ottonieri per Poetitaly (2014), in particolare il testo intitolato Poezilla dal min. 6:12. La lettura apparentemente un po’ sciatta (o meglio, complicata dal controluce) non toglie nulla alla resa del testo, anzi forse aggiunge. Qui certo si tratta di un testo ironico, disincantato, graffiante… ma è un esempio di come talvolta le doti attoriali siano addirittura controproducenti qualora si tratti di prendere debita distanza da certa consumata tradizione. Mi sono chiesto se questo Poezilla (“Attenzione! Poezilla è un bestione ferito, i suoi colpi di coda sono i più micidiali”) sia uno di quei dinosauri che credevamo in estinzione e invece è più forte che mai, oppure si riferisca a un rappresentante della scrittura d’opposizione… o forse più probabile a entrambe. Comunque, in accordo con questa linea di scrittura non posso fare a meno di dire che no, le parole non sono pietre (luoghi comuni d’odierne mitologie) ma materia plasticamente lavorabile, oltre che già abilmente e mediaticamente lavorata ad uso del consumo… e, in definitiva, dove occorre che la lingua batta quando il dente duole.

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