Questo libro era in qualche modo “obbligatorio”. Tanto Marco Palladini ha insistito sul tema del virus (vedi anche la monografia a lui dedicata da Ilenia Appicciafuoco, Nei sentieri della linguavirus), usando il termine per indicare una scrittura ribelle, da infiltrato nei generi letterari e da cronista del dissolvimento sociale, che non poteva ora mancare un confronto con il virus clamoroso che da un anno a questa parte ha ristretto ‒ e ancora restringe mentre scrivo ‒ le nostre esistenze e il mondo intero. Ecco dunque il risultato: I virus sognano gli uomini, edito da Ensamble nella collana diretta da Plinio Perilli che firma la postfazione.
Un romanzo della pandemia, al pari di quelli che si aspettano a iosa? La strada scelta da Palladini lo distingue, intanto, fin dall’inizio dal banale resoconto diaristico per la scelta di narrare in terza persona, dando volto a un personaggio chiamato Lafcadio Morriconi (che compensa la ricercatezza del nome proprio con il cognome popolaresco) e quindi conservando una “riserva di distanza”, malgrado si ritrovino nell’eroe molti dei movimenti di pensiero dell’autore, però insieme ad elementi non coincidenti che lo differenziano.
Diversamente dalle gidiane Caves du Vatican da cui il nome Lafcadio proviene e dove è ancora possibile un intreccio, sia pure venato da assurdo, il tempo della pandemia è sostanzialmente irraccontabile, essendo omogeneo e vuoto (Palladini la chiama «vuotitudine»), caratterizzato dall’isolamento, dall’astensione e dalla fuga dall’unico evento che sarebbe quello letale. Sicché, per forza di cose, qui la forma-romanzo non funziona, siamo in presenza per così dire di un romanzo “lasco”, che si inclina da un lato verso il ragionare del saggio, dall’altro verso i procedimenti della poesia.
Il romanzo della pandemia non può che essere un racconto iterativo, aperto invariabilmente dalla locuzione generica “in quei giorni” e seguire il filo del rimuginare del personaggio centrale. Il problema di questo pensiero errante è che la ricerca di una analisi anticonformista perviene a cogliere, al di là dell’emergenza sanitaria e della paura della morte che le è propria, la conseguenza del virus sugli stati mentali generali, il decadere del pensiero fino alla confusione finale. Difendersi dal lockdown non significa solo prendersi piccole evasioni dai divieti, ma cercare di comprenderne gli effetti di peggioramento nell’estensione dell’individualismo già imperante prima («La propria naturale asocialità si era macroscopicamente implementata nel reclusorio»).
L’impossibilità dei rapporti esterni costringe ancor più di quanto già non accadesse in periodi normali a immergersi nella rete, raccogliendovi i casi più disparati e bizzarri, tra ovvietà e paranoie (Palladini parla di «exofobia», «paura di tutto quello che è esterno a noi» ). Per reazione al falso contatto dei social, al personaggio di Lafcadio è affidato il posizionamento antiantropocentrico, che finisce per passare dall’altra parte con un giudizio severo sul genere umano («siamo tutti stragisti» 57) tale quasi da tifare per il virus o almeno da intenderlo come una semplice selezione naturale («forse è soltanto l’opera di selezione della natura su questa specie, abbastanza spregevole, che è quella umana»). Nelle pagine del romanzo abbonda lo humour nero e vi si inserisce la prospettiva distopica (vedi le pagine sulla fine del mondo). Bisogna concedere al virus, per lo meno, di essere egualitario:
Dunque, un Contagio intrinsecamente rivoluzionario, forse ontologicamente comunista, laddove l’essere-per-la-morte diventava l’unico, vero legame comune tra le persone e insieme le eguagliava e le vincolava al medesimo destino. Tutti sorpresi dal fato virale cinico e baro nella propria fragilità, inermità, nei propri ossessivi timori da era della super-ansietà.
Come pure drastica è la diagnosi di un assai filosofico medico di base:
questo Contagio è il mostruoso quotidiano, nel senso che ciò che appare più familiare diventa d’improvviso il mostro, l’alieno che ti uccide… e tu non sai da che parte sta, dove precisamente ti attaccherà… è questo che produce il rimbambinimento delle genti… si ritorna bambini tremanti che chiedono aiuto perché non sanno aiutarsi da soli.., perciò vedi questa profluvie di infantilismi a go-go… inoltre c’è il nesso epidemia-epidermia il contatto peau à peau è proibitissimo… obbligatorio il distanziamento interpersonale… e già questo non è, se vuoi, per l’animale sociale umano, un morire a rate? … la verità, caro Morriconi, è che stiamo già morendo e facciamo finta di non saperlo…
Il periodo pandemico ha portato alla luce una serie di contraddizioni, che non si limitano soltanto a quella tra emergenza sanitaria che spinge alla chiusura e emergenza economica che spinge all’apertura; il libro di Palladini si sofferma da un lato sull’aspetto etico della palmare evidenza della caducità dell’essere umano, ma dall’altro sullo sviluppo del controllo del biopotere attraverso le misure restrittive. E ancora: da un lato la pandemia non cambia nulla («una emergenza che non cambiava la struttura di fondo. Avrebbe certo modificato gli equilibri, ma non la natura del potere, ovvero dei poteri reali»), dall’altro «il virus era esploso come una bomba nella coscienza dei soggetti».
Questa forza d’urto viene corrisposta (o controrisposta) da Palladini con l’insorgenza dello stile della creatività verbale. Di suo, il virus ha scatenato tutta una serie di novità lessicali, mai udite prima (lockdown, droplet, smartworking, ecc.); per reazione questa scrittura – che non a caso si ispira a Gianni Toti (esplicitamente citato a p. 68) – parte per la sua tangente e non solo rivaleggia in neologismi (mediacrazia, panicodemia, demokritico), ma utilizza anche procedimenti prettamente poetici come le rime («un modus tetro e palesemente rétro»), ritornelli («tanto qui con costanza si canta e si danza, ma senza speranza»), non esitando a inserire intere poesie, come nel finale; senza contare i calchi (l’insistito Homo homini virus), i giochi di parole, non solo quello tra maschera e mascherina, ma anche quello tra «sold out» e «sold(o)» e quello sui «dibattiti me(r)diatici», nonché altri espedienti di vario calembour.
Nella parte conclusiva la narrazione si va disperdendo nella frammentazione dei «disordinati appunti» recuperati dal computer; ma già nel corso del testo il procedimento dell’interpolazione di elementi eterocliti risultava la regola: di tipo assai deviante sono, per esempio i siparietti nonsense-surrealisti ottenuti attraverso parole tedesche prese a caso; così pure i sogni, anch’essi un segnale di tipo surreale. Il sogno si ritrova per l’appunto invertito nel titolo del libro (I virus sognano gli uomini). Nel tempo amorfo della chiusura avanza il «marasma onirico», anche qui contraddittorio: i sogni, infatti, l’unico luogo immune in cui tutto è come prima; eppure anch’essi vengono infiltrati dalla situazione negativa. In sogno avvengono i due “incontri impossibili” decisivi: prima quello con il padre morto e allegramente fluttuante in un imprecisato hereafter, poi quello con il virus stesso che prende la parola per dichiararsi “natura” (e non può mancare l’aggancio con il Leopardi delle Operette morali con Lafcadio al posto dell’Islandese), sostanzialmente indifferente alla sorte degli umani.
Direi che la spinta allo sdoppiamento dialogico sostiene l’intero libro: dove non accade nulla si può sempre discuterne. Si potrebbe vedere in questo aspetto una logica ricerca di contatto con l’altro, almeno sul piano verbale; nello stesso tempo, però, l’effetto di contraddizione lascia pensare che si tratti soltanto di un gioco di specchi tutto interno alla psicologia bloccata. È del resto su questo crinale irrisolto e irrisolvibile ‒ cedimento alla deriva o resistenza stoica? ‒ che si gioca il libro di Palladini con la sua tragica autoironia strutturale. Così come Lafcadio alla fine, tra vari colpi di scena, non si sa bene se sia «mortovivo» o «vivomorto».
Questo libro conferma con acume che, finché siamo dentro una situazione, non possiamo capirla e, piuttosto che pontificare con le certezze insulse dell’«infodemia», è meglio attraversarla con la lama interrogativa propria della pratica della scrittura creativa ed ironica.
17/03/2021
Non so se il libro lo confermi, ma io credo fortemente che, quando siamo dentro una situazione (sopra tutto una situazione che ha la pretesa e in parte la capacità di travolgerci), non possiamo far altro che tentare ad ogni costo di capirla. Ovviamente si tratta – dopo aver messo fuori gioco le “certezze insulse dell’infodemia”, certo, perché certezze non ve ne sono in generale, e quelle dell’infodemia sono quasi sempre approssimazioni intrise di menzogna – di applicare tutta l’intelligenza e l’accortezza critica di cui siamo capaci.
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