Una recensione di Marco Buzzi Maresca sulle poesie di Antonio Perozzi

Ricevo e pubblico volentieri una recensione di Marco Buzzi Maresca al libro di poesie di Antonio Francesco Perozzi, Essere e significare. Si tratta della raccolta di un giovane autore che è interessante seguire (per parte mia, ho scritto l’introduzione al libro).

Marco Buzzi Maresca, Un poema spoematico

 Il passaggio da un semplice assaggio di lettura alla dialogica innestata dalla presentazione in pubblico ha stimolato in me il desiderio di dire qualcosa a proposito del denso tentativo poetico di Antonio Francesco Perozzi, Essere e significare – poema (Oèdipus, 2019).
Il testo e l’operazione in generale si pongono un obiettivo piuttosto ambizioso, ossia interrogare l’interrogabilità stessa dell’essere, ancor prima della sua dicibilità.
E diciamo, in un certo senso ‒ attraverso una fusione a freddo, cioè a una tetragona e ossessiva decostruzione (prima e oltre che degli strumenti, del linguaggio e della retorica) del decostruzionismo stesso ‒ si pone l’obiettivo di attraversarlo e superarlo, per costruire nel nulla, per ossimorica che possa sembrare l’operazione.

Mi ricorda il finale del Il tempo del mio Poema dello schermo Non è ultima motivazione infatti di questo mio scrivere l’esserci io e Perozzi riconosciute consonanze di percorso.
 

ora si muove infine / pallido nel pallido silenzio / cantano le sirene / felice il vuoto che riempie il natante / prosegue / in puro riempimento /di peso leggero il vuoto / strutturato dal canto del cammino / puramente possibile / coraggio lettore / è cominciato / che ti libera / il nulla // cantano le sirene

In tal senso, la prima cosa che mi colpisce è la specificazione formale, di genere ‘poema’. Del poema infatti il ‘testo’ mantiene la macrostruttura in tre sezioni Soma simbolica, Discredito dell’uno, Incarnazione del verbo. Ma… Ma… Perozzi disseziona l’idea stessa di poema come unità e flusso (al di là della cornice ‘macrotestuale’), facendolo a brandelli, essendo le sezioni un accumulo parcellare di microtesti poetici. A sua volta la cornice poema nega dall’esterno la parcellizzazione. Dunque una doppia negazione, che apre alla contraddizione… e forse all’approdo all’indefinibile nulla che faccia da base all’alterità di un diverso ricostruire.
Naturalmente è quasi impossibile uscire dalle strutture del discorso e della retorica, di cui la contraddizione stessa è una delle innervature principe, sia che si sia materialisti, sia che si sia mistici. E resta pericolosa, al di là della sua significabilità, la stessa parola essere. Essere è significare… O essere e significare come inconciliabili parallele?
Eppure, pur partendo alla carica della retorica, a testa bassa, fin da subito Perozzi osa dichiararsi, oserei dire in zona archetipale, simbolico metaforica. Il primo testo, infatti, Ultimo sonetto, che tenta di ammazzare a un tempo il sonetto e la sua predicazione per via di iper tmesi, parte con una invocazione al sole (e del resto a più riprese interrogazione, allocuzione e preghiera compaiono come filo testuale): «Sole innominato […] condannato a benedire […] Sole, ragione di luce».
E lo scopo? «trascinare te / […] a illuminare le // leggi di chi ti si inchina […] materia interrestre co- / me questo mio verso, e quest’anima».
Nel salpare verso la decostruzione, Perozzi osa addirittura la parola ‘anima’. E del resto, come emerge nell’ultima sezione, stuprato montalianamente (qualche storta sillaba) ogni ossario di voci la ripartenza del duello volge a una fenomenologia della materia, dove il percettore e il verso non possono che registrare ed immergersi come «diapason di una materia» aggrappandosi dopo l’ungarettiano naufragio alla zattera del verso «come autentica tragedia / il verso come unico mezzo». Attraversato il dis-essere da subito si presentifica fenomenologicamente il primordiale, il primo ordito, la tessitura originaria.
E messe da parte le figura retoriche, il verso come sensorialità e ritmicità rimane lo strumento principe per ‘fare corpo’ con l’essere, per farsene segnare e non significarlo, ma ‘segnificarlo’. L’essere non si significa, anzi, forse manco si segnifica … Si de-segna … Si disegna.
Ma cominciamo dalla prima sezione del ‘Poema’, Soma simbolica.
L’inizio del lavoro al nulla è un faticoso smontaggio – di strumenti e idee – e oscilla, non sempre felicemente, tra predicatorietà logico-ragionativa, dichiarazioni, scuse, invocazioni. Condizione preliminare (p. 14), come recita il primo titolo, è rendersi conto dello iato tra significare ed essere («[…] retrocedere astronauta / di fronte alle cose […] l’abecedario […] impossibile»). Da notarsi, per inciso (sovviene il Foucault di Le parole e le cose, 1966, e di Questa non è una pipa), che l’essere di Perozzi non è mai il fluire eracliteo. L’essere sono ‘le cose’, come alterità che interroga. Siamo tra Parmenide, Platone, Aristotele. Unità, pluralità, possibile.
I successivi componimenti affrontano la possibilità della poesia stessa, e la propria di essere poeta. Sotto le canne dei pescatori (p. 15): «[…] terrificante / la poesia […] terribile / poter sbucciare gli oggetti». Con gli strumenti della retorica: «[…] anche squali, fra i tesori». La versificazione: (p. 16): «Lo confesso / ho versificato […] pudore […] di uno stupro […] celebrate lo smarrito». Capacità (p. 17): «Questa poesia vorrebbe / dire / della capacità della poesia. Abbiamo il lamento crepuscolar-corazziniano sull’inadeguatezza (confesso / pudore / smarrito), la richiesta del permesso
(Questa poesia vorrebbe). Ma la cosa più interessante è la deriva visionario-orfico-romantica. La poesia ‘pesca’ (nell’abisso?), e pesca verità terribili, crudeli (squali). Il contatto con l’essere brucia?
Ma già compare anche una delle due chiavi dell’approdo finale: metafora e materia. La poesia ‘sbuccia’ oggetti. È molto materico. Bello. Anche se echeggia il mordere il frutto di dannunziana memoria. E comunque sbucciare è un lavoro, il mordere un piacere. La corsa all’essere per Perozzi per ora è lavoro, non eros. Perché «L’interrogazione non perfora / la materia che resiste […] vergine rimane l’oggetto» (L’oggetto vergine, pp. 21-22). La soluzione? Tra Mallarmé e Montale direi. Sta nello spazio interstiziale del linguaggio (lingua e metrica), che può solo indicare, negli spazi bianchi, nell’anello che non tiene: «Ascolta, lì, dove il verso s’incrina, / o meglio, s’incrinerebbe / se esistesse, / quella poesia / sarebbe grandiosa» (Esegesi di una poesia che non esiste, pp. 18-19). Del resto, il richiamo a I limoni, di Montale, è palese. E oserei dire Perozzi più montaliano che mallarmeano anche per la tendenza alla matericità.
Si veda, per es., ne I limoni, «[…] i sensi di quest’odore / che non sa staccarsi da terra / e piove in petto una dolcezza inquieta [ ..] la nostra parte di ricchezza [ …] l’odore dei limoni [ …] silenzi in cui le cose / s’abbandonano». E non a caso, anche Montale, parla di ‘cose’.
Oserei azzardare, che per il binomio metafora/materia, e per la poetica del dubbio Perozzi esuli dal simbolismo, e si ponga piuttosto sulla linea Baudelaire-Montale-Ungaretti. Un Ungaretti a lungo evitato, poco dubitante certo, ma folgorantemente concreto nella sua metaforicità. E lo si vedrà alla fine.
Ma il vero decollo della prima sezione, e trampolino alla successiva sta nei componimenti che vanno da p 32 a p 37, cioè fino quasi alla fine della sezione: I due pesi, Vocazione, Sentore contemporaneo, Solido amorfo, Il nomade e la monade: dualità’ (pp. 32-37). Qui compaiono movenze tematiche e parole chiave che concretizzano finalmente come assunto principale dell’impresa la dicotomia dichiarata nel titolo. I due pesi:

[…] Quale tra duemila discorsi può dirci/che non coli trincea tra i due pesi […] / Quale tra […] Quale può […] Quale tra […] Può davvero […] Può davvero / […] Per soma simbolica schizofrenici, / per soma corporea fatti schiavi e collezionisti di scarlattina / ineluttabilmente chiediamo.

Una bella poesia, spingente emotivamente per urto anaforico, anche se ancora prigioniera di eccessi loico-linguistici, («metadiscorso / che f(x) tenda / sovrasistema di segni / empirica»). Vi compare tematizzata come sofferenza la ‘dualità’ due pesi/schizofrenici») ma anche la parola chiave ‘SOMA’, al plurale neutro. Discredito dell’uno, logico categorizzante, a favore della pluralità, verrebbe da dire col titolo della seconda sezione. Ma anche matericità (soma/peso), e dissociazione sofferta (schizofrenia). E splendidamente surreal-materica l’analogia della «trincea che cola».
La poesia seguente (Vocazione, p. 34) è meno bella. Fa da ponte. Lavora al seguito. Ma come nella tradizione delle ‘coblas capfinidas’ ritematizza la scissione come ‘materia d’anima’, angoscia… «porti in spalla i due pesi» (‘cosmo’ e ‘anima’). Ora la lotta non è tra ‘parole’ e ‘cose’, ma tra anima e mondo, io ed essere.
Angoscia, sofferta schizofrenia, difficoltà di vivere. Angoscia che si risolve, cartesianamente, nel componimento successivo (Sentore contemporaneo, p. 35)… «Come se non bastasse, / per essere poeta, / l’essermi accorto / di vivere». Mi accorgo di vivere, ergo sum (poeta), dove essere e poesia coincidono, come morte e vita in Ungaretti («Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita») .
Angoscia e schizofrenia. Poesia come lotta alla morte, potenza salvifica. Invocazione alla poesia. Non può che venire in mente il ruolo salvifico della poesia in Cavalcanti (Ballatetta: «Deh, ballatetta mia, a la tua amistate / quest’anima che trema raccomando / menala teco, nella sua pietate»…). Ma certo echeggiano anche il Baudelaire di Albatros, e Palazzeschi. L’albatros qui diventa «Poeta […] vestito di cenci, / eroso», mentre ‘l’incendiario’ palazzeschiano diventa il poeta stesso, di cui resuscitare la possibilità. La morte della possibilità della poesia è come la ‘morte d’amore’ in Cavalcanti.
Nel componimento successivo (Solido amorfo, p 36) torna la dualità, ma come materia smateriata, o meglio ‘de-qualificata’. ‘Solido amorfo’ non è infatti propriamente un ossimoro, ma allude semmai alla aristotelica asimmetria tra sostanza e accidenti (le qualità predicabili): il come.
La doppia negazione «[…] né solido né liquido / […] né carne né cielo / […] né vivo né morto» potrebbe aprire alla sintesi dialettica. In realtà sembra più attestarsi su nullificazione e silenzio, un azzeramento che apra a un ascolto del ‘mio esserci’, senza predicazione. Bisogna lasciare il vuoto tra gli opposti. Essere nomadi? (Il nomade e la monade: dualità, p. 37) Cioè senza casa? Non dunque la heideggeriana ‘casa dell’essere’, ma il viaggio nel molteplice…  «non scopriamo la monade». È il battello rimbaudiano, senza ormeggi… «Dinoccolate scatole craniche / nel cogito», senza meta…. «Io randagio / raccolgo le schegge cadute / dalle note che scaglia in cielo una campana» (e quest’ultima immagine richiama alla mente il Baudelaire pre-surrealista di Spleen: «Des cloches tout à coup sautent avec furie / Et lancent vers le ciel un affreux hurlement»). «Scaglia in cielo una campana»… Resta dunque solo la tensione, come lapidariamente e ungarettianamente in Titolo (p. 38)… «Il resto è mestiere».
Apertura e pluralità: non nominazione categoriale unificante. Si potrebbe citare la ‘patafisica’ di Jarry, cioè la “scienza delle soluzioni immaginarie, che accorda simbolicamente ai lineamenti le proprietà degli oggetti descritti per la loro virtualità”…
Cosa manca?
Materia, dualità, molteplice, virtualità… Manca la rete del pescatore, ed è la rete metaforica. Seguirà ancora una intera sezione decostruttiva, titolo Discredito dell’uno (pp. 41-68). Ma il seme della soluzione è già gettato in Conoscere come comparare (p. 40): «colline […] come i formicai», ma anche «I cavalli come i cavalli […] Le pietre come le pietre». Dunque la rete delle analogie, ma anche la tautologia, cavalli / cavalli – pietre / pietre, perché l’identico non esiste nel «cuore come un tempo flessibile».
E se ci fossero dubbi, prima di decostruire, la nuova sezione Discredito dell’uno si apre con una invocazione (Precaria preghiera, p. 43) a quel che si può ritenere un concentrato di analogie silenti, l’eliotiano e montaliano ‘correlativo oggettivo’: «Correlativo oggettivo che equivali al sole / o al mare […] donaci […] presenza […] rifugio».
Si presentificano quindi gli ‘orditi primordiali’ di cui parlavo all’inizio: il sole, ma ora anche il mare. Intelletto e corpo? Maschile e femminile?
Seguono decostruzioni talora dichiarate, talora agite.

tritolo / sotto la scorza delle lingue’ (Ipotesi per una detonazione, p. 44);

che vomitassi le strutture (Artigianato poetico cosciente «esaurito», p. 45);

disimparare il vocalismo (Comunicazione appresa, p. 46)

con quale coraggio […] dispositio del mio simulacro / così che sia vero anche l’ultimo mio messaggio (L’ultima prossemica, p. 48)

Qui interessante la decostruzione del comportamento, come linguaggio, nei vissuti, fin nella morte, come anche interessante la tensione a «un io / non già deciso» in Trapassato etico (pp. 52-53). Un po’ dichiarativi gli attacchi a postmodernismo e avanguardie (pp. 50-51), ed in genere dichiarativi gli smontaggi di ‘modi’, più o meno consunti, compresi la «poesia visiva» (p. 67), o la «pagina possibile» (Dispoesia, p. 68).  
Poi, finalmente il coraggio ‒ a lungo dissimulato ‒ della scelta di un ritorno, già nel titolo ‘mistico-materico’ della terza sezione, Incarnazione del verbo, un titolo che si potrebbe parafrasare con alcuni versi di Essere e significare (p. 60), ancora nella seconda sezione.

Ottenebrato in luce e / […] rimossa la provenienza e / Trasferito sulla superficie degli esseri / […] / Con cura di / Oblio.

L’inizio dei versi forma la parola ACROSTICO, creando una tautologia sullo strumento stesso formale, agito e denegato, anche perché la vera natura dichiarata è la ‘stocastica’, che rimanda al caso, e non all’ipercontrollo formale, dove l’arbitrarietà della forma addirittura prevarica il contenuto. Un coup de dés verrebbe da dire piuttosto, con Mallarmé. 

Stocastico ‒ Nel calcolo delle probabilità, lo stesso di casuale e aleatorio. Per estensione, si dice di strumento, procedimento, teoria, modello atti a descrivere e studiare situazioni che variano in base a leggi probabilistiche (e non deterministiche), come, per es., tutti i fenomeni naturali (dizionario Treccani).

Un ritorno dunque, ma a cosa? Tenebre e luce, provenienza oscura, superficie degli esseri, oblio. Un ritorno direi, oltre che ad una poetica barocca della coincidenza degli opposti, e della ‘matericità’, anche ad un approccio fenomenologico all’esistente. Del resto, l’espressione «superficie degli esseri» sembra rimandare alla famosa «profondeur de la surface» di deleuziana memoria (La logique du sens, 1969), dove la ‘coincidentia oppositorum’ è tra profondità e superficie.
Il senso dunque si ‘incarna’, è nelle cose: è ‘corpo delle cose’, e in me ‘corpo’. Per dirla con Perozzi (Intitolazione poetare, p. 67): «corporale / deflagrato / procedere / mare».
Per parafrasare Ungaretti, dopo premesse e smontaggi, la svolta dell’ultima sezione si apre all’insegna del ‘sentimento del tempo’:

verticalità […] / che m’infilza e infilza Cesare […]
(Onde e frequenze, p. 71) 

Rimane / l’aggrovigliarsi dei secoli […] / […] impossibile decifrare / in virtù di necessità // Ma in virtù di storia / accade / raccontare
(Tradire, p. 72)

Tempo come verticalità. Non decifrazione e necessità, bensì storia e racconto (il caso?). Racconto? Addirittura ‘canto’!   

Lo confesso […] / ho versificato / faccia a faccia col terzo uomo
(La versificazione, p. 74)

 E il terzo uomo? La sintesi dialettica tra opposti? Comunque… Il canto. Perché certo, dialettica degli opposti, materia, corpo e superficie. Ma nella poesia il corpo si fa ‘voce’.   

È salma perforata / questo concerto d’atomi / e virtù perforante / la tua voce / magro acino d’uva / in terra d’ulivo.
(Innesti, p. 75)

 E finalmente, ungarettianamente liberato, Perozzi non chiede, dichiara, questiona. Dice, con pregnanza metaforica e di tono. E prosegue felicemente:

Come i numeri / o come gli uccelli nelle loro ossa / mi porto dietro / le cavità.
(Nato alla parola, p. 76)

Icastico, e usando al meglio la sua metrica in verso libero, per espansioni e contrazioni. E ancora.

Vocabolario ossia ossario di voci / nella carne nella carne questo fiato
(Nella carne, p. 78)

Ossario di voci, carne, fiato. Il corpo, e la sua temporalità, si fanno voce. Carne, carne. Perché la voce si incarna, o tautologicamente, la carne si incarna. Peccato poi ancora qualche caduta lamentosa, qualche excusatio non petita, mista a loicismi:

 artigiano confuso / il diapason di una materia / […] / il verso come unico mezzo
(Artigiano confuso, p. 78)

 O eccessi teorico dichiarativi «sgrammaticarci tutti» (Copulazione, p. 80), «un certo peso disatomico» (Ultravivere, p .81), «discinto / da un’epentesi» (Incarnazione del verbo, p 82.), «In copula crasi» (Essere e significare, p. 83). Insomma, le ultime poesie tornano un po’ agli inizi. Una fatica a separarsi e spiccare il volo, un’ansia di specificazione. Un libro complesso, arditamente progettuale, sofferto, e dunque, discontinuo, ma ricco di approdi.

 

 

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