Ho spesso intrecciato utilissimi dialoghi su temi teorici e letterari con Felice Accame, studioso versatile proveniente dalle esperienze della Scuola Operativa Italiana, che ci ha abituati a pubblicazioni su argomenti apparentemente stravaganti, accompagnate al buon bisogno da titoli molto lunghi ed elaborati. Nel caso del libro in esame, dato alle stampe ‒ come altri dell’autore ‒ dall’editore Odradek, il titolo è invece un gioco verbale che ricalca il monologo più famoso del mondo: To bet or not to bet. Al to be, cioè alla domanda sull’essere, si sostituisce il to bet, dove a essere messa in dubbio è la scommessa. Il sottotitolo infatti recita: Lo scrupolo da gioco tra mistica, casualità e determinismo. Siamo dunque di fronte a un libro sul gioco e segnatamente sul gioco d’azzardo, e ancora più precisamente sulle scommesse sulle corse dei cavalli. Che cosa sta succedendo? Forse la teoria, visti i tempi, si è data all’ippica?
Non si creda che un libro sul gioco nasca da mera vena “giocosa”. Quello che si affronta è tema letterario serio, dal Giocatore di Dostoevskij al Mattia Pascal di Pirandello, a Landolfi in vari punti della sua opera. Walter Benjamin, nel suo saggio su Baudelaire, arriva davvero a sfiorare l’eresia quando equipara il comportamento dell’operaio alla catena di montaggio a quello del giocatore al casinò in base alla comune coazione a ripetere. Malgrado ciò, nella considerazione sociale, fioccano da destra e da sinistra le condanne morali, le restrizioni e le proibizioni. Perciò, prima di ogni altra cosa, Accame deve preoccuparsi di rivoltare il tavolo e di riscattare il gioco dalla riprovazione che lo coglie soprattutto quando c’è di mezzo la scommessa in denaro (che la condanna sia spesso ipocrita è cosa che vedremo alla fine). La risposta al senso comune, che fa d’ogni erba un fascio, deve provenire da precise e puntigliose distinzioni. Ed ecco allora che, nella struttura frammentaria del libro, tra citazioni colte, aneddoti personali e curiosità, l’autore pone alcune linee divisorie: la più importante è quella che passa all’interno stesso di quello che è chiamato l’azzardo (il gioco di alea nella terminologia di Caillois). La differenza tra determinismo e probabilismo, come li definisce l’autore, cioè tra il gioco d’azzardo vero e proprio legato al puro caso e quello invece legato a una specifica previsione: qui il lancio dei dadi e la pallina della roulette, e dall’altro lato, invece, la scommessa sulle corse dei cavalli. È vero che anche nell’indovinare la faccia di un dado può entrarci un calcolo statistico, tuttavia è nel secondo corno che occorre richiamare in servizio tutta una serie di conoscenze (risultati delle corse, pronostici e quotazioni, stato del terreno, ecc.). C’è dietro un bagaglio di esperienze e di interessi, quasi di investimenti; insomma, dice Accame, una «cultura del trotto». Insomma, secondo l’autore, questo tipo di scommessa che tiene presenti molte condizioni per fare la sua previsione è molto vicino ad essere un vero e proprio modello conoscitivo.
Può soccorrere l’etimo della parola “scommessa” che rimanda al “disunire cose o parti commesse tra loro” e quindi indica una operazione che va dentro i rapporti consueti, si potrebbe dire che è una sorta di decostruzione.
E, a pensarci bene, ‒ scrive Accame ‒ in ogni scommessa nel senso odierno del termine, la vincita o la perdita è determinata da un confronto tra almeno due risultati: quello che mi sono rappresentato e quello che, in un secondo momento, ho percepito ‒ tra un costituito qui e ora e un costituito posto sull’asse del tempo e specificato al futuro.
La scommessa assume allora sorprendentemente un valore pedagogico perché prepara, su un modello simulato, alle scelte che ci attendono. La vita è fatta di scommesse e questo si traspone addirittura sul piano più generale della biologia, quando Accame riprende da un libro della geobiologa Hope Jahren la bellissima descrizione della scommessa a livello vegetale, si potrebbe dire “seminale”, visto che si tratta di un seme e della sua radice:
(…) è la prima radice che decide giunto il momento per uscire dal seme.
Le occorre fortuna e sagacia per trovare l’acqua e per trovare l’ancoraggio giusto e duraturo che porrà fine alla sua vita di nomade passivo. Una volta uscita, non potrà più spostarsi ‒ e se il posto è buono, bene, si cresce, se no, si muore. Si capisce, pertanto, come questo qualcuno (peccherò di antropomorfismo, ma non riesco a pensarla tanto diversa da me e, anzi, sarei fin portato ad attribuirle una razionalità maggiore) in fatto di capacità di calcolo non sia secondo a nessuno: deve valutare la temperatura del posto in cui si trova, la quantità di luce che potrebbe ricevere, le possibilità di rifornimento idrico in superficie ed in profondità, la pericolosità degli altri esseri viventi con cui verrebbe a condividere l’ambiente.
“Rischia tutto in quel preciso momento in cui le prime cellule”, dice la Jahren, “fuoriescono dal tegumento del seme”, perché “la radice spinge verso il basso prima che cresca il germoglio, e non c’è quindi possibilità che il tessuto verde produca nuovo nutrimento per diversi giorni o addirittura per settimane”. Lo stoccaggio di riserva si esaurisce e, allora, “bisogna scommettere il tutto
per tutto, e perdere significa morire”.
Antropomorfizzando ancora di più, potrei pormi la domanda circa lo schema mentale che la radice applica: probabilistico o deterministico? Gioca d’azzardo o scommette su argomentazioni che richiedono un minimo di coerenza? Va da sé che la commozione per l’enormità della sua impresa mi porti dritto sulla seconda alternativa.
Accame non omette i rischi del gioco quando diventa compulsivo e maniacale, ovvero «supera una certa soglia di consapevolezza e di controllo di sé» fino a costituire uno «schema mentale totalitario»; però aggiunge che di questi totalitarismi che “impoveriscono l’esistenza” ce ne sono anche altri, che ci attirano da tutte le parti ‒ la stessa rete ne è uno… E vi sono compresi gli stessi pulpiti da cui viene la predica: la Chiesa, ad esempio, non ha poi al cuore una scommessa, come bene ha visto Pascal? E le assicurazioni non sono a loro volta una scommessa sulla morte? Se nel nome del feticcio-denaro è logica la condanna dello sperpero («Nella scommessa c’è di mezzo il denaro e la sua valenza simbolica… Perderlo, allora ‒ e magari perderlo per scommessa ‒, non rappresenta un ‘peccatuccio veniale’, ma ‘mortale’»), eppure ‒ aggiungo io ‒ non è forse ormai il capitalismo impazzito dietro alla finanza e al gioco in borsa? Divenuto, come hanno mostrato certi fondi spazzatura, una scommessa sulla scommessa? Tanto più e non a caso, nella crisi economica diventa sempre più frequente il gioco di puro azzardo, che non comporta alcuna applicazione, nessuna conoscenza e nessuna abilità:
Questi lunghissimi anni di crisi economica ‒ molto più lunghi di quanto ci racconta la maggior parte di coloro che ambiscono a rappresentarci politicamente ‒ ci hanno quasi costretti ad una frettolosa ricerca del ‘colpo fortunato’ (al Lucky strike che, non a caso, è il nome di una sigaretta americana) ‒ a scommesse senza calcolo il cui senso sfugge nell’attimo.
Per contro, Accame punta, se non su un valore sovversivo, su un valore “formativo” del gioco («Tramite il gioco, dicono gli etologi, vengono accresciute le possibilità di apprendimento; tramite il gioco, dicono gli antropologi, il giovane si pre-esercita a quelli che dovranno poi essere i comportamenti adulti ‒ costruisce gradualmente la propria autonomia; tramite il gioco, dicono psicologi e sociologi, ci si predispone al linguaggio ed alla pratica dei ranghi sociali»). È vero che, al contrario di Benjamin, tiene distinti gioco e lavoro («nel primo caso, ciò che fai e il risultato che consegui rimane mentalmente tutta roba tua; nel secondo caso, il risultato finale ti è sottratto»); però poi li riavvicina, in quanto «la scommessa può essere considerata un ibrido fra gioco e lavoro». E addirittura avanza l’ipotesi che «nello scommettere ‒ nelle attese dello scommettitore in ordine alle proprie previsioni ‒ ci sia anche qualcosa di etico».
Personalmente, accolgo con particolare favore l’allusione a un “agire strategico”, poiché proprio in questa chiave vado considerando da tempo la letteratura (le strategie del testo, le strategie della critica e via dicendo). In fondo, la “critica integrale” che intendo praticare non è altro che una previsione degli effetti. E che dire dell’alternativa letteraria: non è forse una bella scommessa? Anzi, direi che, essendo data per altamente improbabile dai bookmakers della cultura attuale, è di quelle che potrebbero fruttare una grossa vincita…
Un’affascinante esplorazione del vero dilemma di una cultura come la nostra che, fondata com’è sulla logica del dualismo esclusivo (una cosa o è o non è, non può essere e non essere), si rifiuta di ammettere che la scommessa è la sua quotidiana esperienza angosciosa della realtà, sulla quale in ogni momento ci troviamo costretti a trarre conclusioni e a prendere decisioni, ammantandole di esattezza analitica, quando in realtà non sono che tentativi più o meno plausibili. I conati di questo periodo lo mostrano con insistenza. Scienziati che affermano tutto e il contrario di tutto, politici che ballano sui tacchi e sulle punte, una intera civiltà (quella occidentale, ché le altre sembrano solo aspettare con paziente rassegnazione che anche questo flagello passi) che si affida alla scienza per non essere sopraffatta da una verità terrificante: scommettiamo che tutto andrà bene. Grazie Francesco.
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