Michele Fianco, Un semplicissimo universo inespanso, Nino Aragno editore.
Michele Fianco ci presenta, nella elegante collana “i domani” dell’editore Nino Aragno, una mappa del suo percorso di scrittura attraverso i brani più significativi, che sarebbero un po’ i suoi “classici”, seguendo la sequenza delle raccolte, alle quali ‒ attraverso la titolazione delle sezioni ‒ attribuisce una dimensione addirittura cosmica, come vedremo. È dunque l’occasione propizia per tornare a ragionare ‒ come faccio da un certo tempo ‒ sul particolare tono di questo autore (il tono-Fianco) che non si lascia facilmente catalogare né con le categorie di avanguardia e simili, ma neppure con quelle ormai comunemente invalse dell’emozione soggettiva e della lirica di ritorno.
Prima di tutto c’è l’io, quindi siamo esattamente nella “bocca del leone”, nel luogo più comune del poetese di tutti i tempi. Ma l’io, qui, ha un profilo decisamente lacunoso. O, per meglio dire, è il suo racconto, il contesto che fa sorgere attorno a sé, il mondo che ci “apparecchia”, a mancare di molti particolari e a sollecitare perciò l’interpretazione del lettore. Ci sono gli spunti; mi viene da dire: i sintomi ‒ mancano le coordinate. Potrebbe prospettarcisi una poesia di amore-disamore (debitamente ossimorica nonché chiastica: «tu mi ami di odio sincero… io no, io t’odio d’un amore vero»; p. 21) epperò non capiamo neanche come sia, se ci sia, una lei. I dettagli degli eventi vissuti vorticano («un’eco, il vento, la ferrovia», nella medesima pagina) senza coagularsi in quella “storia” che sarebbe richiesta dal mercato delle immedesimazioni.
I dettagli sono presi in carico dal ritmo, che è poi l’aspetto decisivo di questo tono. Un ritmo ‒ è facile dire stanti i rapporti dell’autore con la musica jazz ‒ che non riposa in armonie melodiche. Come pure ‒ a volersi mettere certosinamente al computo metrico ‒ non accoglie isometrie o endecasillabi orecchiabili come pure molto raramente fa accoppiate di rime ‒ nel libro ce ne è un solo esempio, che per altro ne contiene di sofisticate (rima inclusa: addosso/osso; rima ipermetra: lette/carattere; p. 30). Piuttosto c’è un ritmo di riprese e di ripetizioni, di insistiti, ossessivi ritornelli, come quello della “testa che non esiste” (vedi p. 23), dove la ricorrenza di suono martella proprio sopra lo svuotamento della psicologia. E quindi serve a distogliere dalle banali traduzioni del poetico nel turbamento esistenziale.
Il termine sociale di questa poesia sembrerebbe subito trovato: l’autore appartiene infatti alla “generazione saltata”, quella che si è scontrata con la scomparsa del lavoro e quindi con l’assenza di un ruolo sociale riconosciuto (ed è per questo che neanche la testa “esiste”). Nel mondo del lavoro evanescente si modifica anche il tempo vitale e di conseguenza anche il tempo (il battere) del verso poetico. Se il lavoro non si confà più alle facoltà corrispondenti della propria formazione bisogna essere pronti a “fare tutto” (ed ecco «faccio tutto, facci caso», un altro piccolo classico; p. 27). Da questa posizione di marginalità ci si può aspettare qualche forma di opposizione e di alternativa, in quanto c’è poco da perdere; eppure il tono-Fianco non prevede modi di polemica sbandierata ed è vero che ormai le pretese rivoluzioni “a parole” lascerebbero il tempo che trovassero. La scrittura qui assume invece una sorta di pacatezza venata di ironia, tuttavia sottesa da un fermo fondo etico. A pagina 80 si legge di una «calma rivendicazione del vivere». Ed è proprio così: quasi scusandosi di esistere ancora, la vita che la società non riesce ad assimilare come dovrebbe presenta il suo rendiconto. E non lo presenta in chiave di rappresentazione vittimistica, offrendosi allo sfruttamento in forma di “spettacolo” consumabile, bensì in una forma “straniata”, che mette in crisi, sia pure in modo non plateale, i modelli rappresentativi.
Sul piano dell’enunciazione, una presenza molto frequente è quella del tu. Il tu, come si sa, possiede svariate funzioni e risvolti. E anche qui oscilla tra l’interlocuzione (rappresentando il riferimento a difficili rapporti interpersonali) e lo sdoppiamento, là dove non è altri che l’io in cerca di oggettivazione. Ma la cosa più interessante è che l’io e il tu-io diventano i tutti: forte è infatti nell’autore la consapevolezza di un destino comune, di una condizione generazionale e quindi della valenza allegorica della espressione personale. Addirittura fino al punto da rovesciare la crisi in una sorta di “megalomania”. Già uno dei suoi titoli, che spiritosamente inglobava il nome dell’autore, recitava: Michele Fianco, (autore o parte del titolo?) ma non puoi fare come tutti gli altri? E ancora un altro caso superava in quantità la vecchia esagerazione di Baudelaire «Ho più ricordi che se avessi mille anni», affermando: «Ho più biografia io / di un pianeta, di un mondo» (p. 38). Ma qui si amplifica ancor di più ricapitolando la sua esperienza letteraria non già con i titoli delle diverse pubblicazioni (che sono poi indicate in sede di nota conclusiva), ma ‒ come accennavo all’inizio ‒ con la dimensione cosmica delle ere da Miliardi anni fa all’inedito Futuro remoto, passando per i gradi dell’evoluzione e della comunicazione umane, quasi ad apertura di pagina. Lo stesso titolo del libro, Un semplicissimo universo inespanso, suggerisce per l’appunto la potenzialità amplissima della postazione individuale. Insomma, l’iperbolite si presenta come l’esatta contropartita dell’insignificanza in cui è tenuta in data odierna la poesia e in generale la forza-lavoro intellettuale.
Si può parlare ancora di sperimentalismo? Forse più precisamente di tracce di sperimentalismo. E non solo nel gioco citazionista del recupero vintage della cultura di massa (musicale o sportiva: «i cinque campioni un po’ rétro,… un terzino dal fisico nostrano… immagina un pugile»; p. 52); ma soprattutto nello spostamento “figurale” del vissuto, che finisce per creare un tessuto verbale non immediatamente traducibile in un vero e proprio mondo di finzione, quanto piuttosto in un complesso mondo semiotico. Ed è significativo che questo avvenga con la massima evidenza proprio nella sede del testo più narrativo, tratto da Swing:
Ci pensi troppo. Lo sconquasso, è vero, ci aveva teso ormai Saturno. Poca vita in mezzo e tanti giri intorno. Sì, sulla circonvallazione, un traffico continuo. Tu dentro avevi, invece, una velocità enorme. E in un attimo avevi calcolato: che un mondo alla volta non si poteva più, che quel centro ‒ che pure c’è stato ‒ si vedeva solo così, braccio appoggiato, dal finestrino, che non c’era altro modo che quella fila e quell’andare sempre. E passavano gli anni con questa tua rapidità frustrata. Da tutto. Una gabbia che si rigenera. Tolto un lucchetto, cambia forma e ne devi aprire altri cento. Intanto i palazzi crollano, sì, son crollati. È un disastro. Peggio, continuano a crollarti giorno per giorno. Anche finita l’emergenza. Come un 6 aprile (p. 43).
Certo, possiamo risolvere le figure, tradurre ad esempio «Saturno» con malinconia; però il loro sovrapporsi costringe a uno slittamento continuo, sicché l’impasse esistenziale (ammesso che questo sia l’allegorizzato) viene suggerita dal blocco del traffico, ma poi si passa alla gabbia, poi subito ai palazzi crollati, via via figurando e defigurando (e questo solo nel passo iniziale). Tanto che la data alla fine, che dovrebbe ancorare nel tempo della autobiografia, non dà poi un soverchio appiglio; non è neanche “il” 6 aprile, ma “un 6 aprile” e allora, quale fra i tanti?
Vale la pena di sottolinearla, poi, questa presenza del testo narrativo in una raccolta prevalentemente di versi. È il segno che poesia e prosa nascono insieme, dalla stessa apprensione della scrittura, animate dal medesimo tono, solamente distinte dalla lunghezza del respiro, con la stessa vocazione alla frammentazione, divenuta poi eclatante nel passaggio al testo-sito, L’ospite è un mattino radio, un ipertesto fatto di plurime componenti anche se in questa sede documentato per forza di cose solo da pezzi verbali.
Così, «nel dubitabile mercato umano», come lo definisce Fianco (p. 55), è possibile produrre ancora la resistenza dell’intelligenza nella scrittura, con una creatività vitale e nello stesso tempo costruttiva. Perché siamo ancora, per usare una delle felici invenzioni dell’autore, nell’«immodernità» (p. 17); altro che postmoderno! E per meritarci la modernità dobbiamo lavorare e lottare per questo minimo richiesto:
A me basterebbe uno che veda / la vita, sì, non necessariamente / come una patologia da cura / e che non faccia di un po’ di schiuma / in più nel cappuccino, una questione / di ideologia. Questo sarebbe / un buon presidente. Ma non c’è. Ché, / se avessimo capito qualcosa / dell’arte e della sua funzione ‒ vero ‒ / il capolavoro vive ed è la / sua immediata sdrammatizzazione. / Che poi essere adulti (vedi anche / laici, critici, ironici) dopo / seimila anni di storia, di scienza / e di mondo è il minimo che / si chiede, a questo punto. Vedi tu (p. 58).
Allora, quella serie di titoletti “evoluzionistici” significa anche questo: un invito al maturare della coscienza, per uscire finalmente dalla preistoria.
Chi volesse saperne di più sull’autore, può accedere al suo sito attraverso il link rintracciabile nel menu di destra.
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