Giuliani ci invita al festino dei libri

Già annunciata lo scorso anno nel corso del convegno di Pescara, esce ora da Adelphi la postuma raccolta di saggi di Alfredo Giuliani, intitolata La biblioteca di Trimalcione, per la cura di Andrea Cristiani. È un grosso volume di quasi 400 pagine, già progettato dall’autore utilizzando gli articoli comparsi sui quotidiani come aggiunta e integrazione ai precedenti libri di critica, Immagini e maniere, Le droghe di Marsiglia e Autunno del Novecento.
I motivi del titolo sono spiegati dall’autore proprio nel pezzo dedicato al Satyricon: durante il vanto delle sue proprietà, Trimalcione afferma di avere tre biblioteche, un greca e una latina. Si tratta dell’errore di un arricchito così ignorante da non saper neppure contare, oppure – come preferisce intendere Giuliani – di un trasporto del «flusso logorroico» prodotto dalla «esilarante ingordigia del personaggio»? E spunta allora un analoga ingordigia nel campo della lettura: «Non sono forse così, abbuffate trimalcioniche, vuoti farciti di studiate leccornie, le nostre incessanti letture e le biblioteche personali che mettiamo insieme e sfoggiamo alla nostra mente avida di trangugiare polpa di chimere?»
Il libro è appunto un invito al “festino dei libri”, con preferenza per quelli sovrabbondanti, trasgressivi e bizzarri.

Giuliani si dimostra davvero un invidiabile lettore onnivoro di ogni tempo e ogni latitudine, spaziando dai classici greco-latini agli orientali e poi giù giù fino ai moderni. Una competenza strabiliante, una grande varietà di scelte letterarie sempre comprese puntualmente ed esposte con sintesi brillanti. O non era Giuliani un critico di parte? Qui non sembrerebbe: in fondo c’è poca avanguardia e pure poche stroncature, quella magistrale sulla Storia della Morante che mi tengo, per così dire, incorniciata, non è stata inserita nel libro… E dunque parrebbe un Giuliani recuperato all’“ermeneutica dell’ascolto”, attento a far risaltare i libri di cui parla con la calibrata esposizione, anche con il riassunto, se può servire ad avvicinare i lettori. Magari talvolta, se si presta l’occasione di qualche spunto piccante, ci metterà una ironica malizia.
Ma, insomma, che critico è Giuliani?
Ovviamente è un critico-scrittore che il suo compito conoscitivo lo assolve in ottimo stile, magari con pertinenti metafore. Come esempio, si veda questo ritratto di Catullo che si inventa come personaggio:

Catullo ci viene subito incontro con un’immagine forte di poeta leggero, quasi carnevalesco nel recitare le proprie passioni e nell’ingigantire grottescamente gli umori del momento. È un’immagine che non ci abbandonerà più, sebbene la si scorga in qualche punto offuscata da nostalgie e rimpianti. La sua scrittura sprizza spontaneità: tutto ciò che accade nella vita del testo sembra prevalersi della vita vissuta tale e quale. Allora diciamo: vedi com’è fresco, che mirabili sprezzature, come smania e poi s’intenerisce di colpo, con quale sobria prontezza odia e ama, come si diverte nei sarcasmi e com’è delizioso con gli amici, e che spiritosa veemenza nell’esagerazione! Tutto giusto, purché si sappia che stiamo parlando di quel Catullo personaggio, tra i personaggi del Liber, che lo scrittore Catullo ha inventato. Stupenda invenzione.

Giuliani è, seppur con qualche ritrosia, un critico biografico, quando ci vuole ci vuole.
È, negli interventi inziali, un critico psicoanalitico («Nel fascino esercitato dall’analisi c’è un fondamentale elemento critico»); e del resto non si possono dimenticare le sue note junghiane ai testi dell’antologia dei Novissimi.
È spesso un critico grande-lettore che descrive l’atto della sua stessa lettura, magari andando a riprendere e correggere le prime impressioni. Così, ad esempio, assolve il suo debito rispetto alle Confessioni di Nievo:

Ma chi ha letto da cima a fondo le Confessioni d’un italiano, a parte gli studiosi di professione? In una mia vecchia lettura m’ero arrestato alla metà del libro, al decimo o undecimo capitolo; e più di un amico letterato, che ho avuto la curiosità di consultare in proposito, ha confessato senza imbarazzo ma con una punta di rammarico di aver compiuto la stessa esperienza: pressappoco alla metà del libro (fors’anche un tantino prima) erano intervenute la distrazione, la stanchezza, e quasi l’indifferenza. Bisogna convenire che per un romanzo postmanzoniano di novecento e passa pagine farsi leggere fino alla metà è pur sempre una bella impresa.

Ancora: è un valido critico comparatista che non esita a far entrare nell’esiguo spazio della recensione i rapporti con altri testi e altri autori.
Ed è un critico dotato di attenta valutazione. Se non vere e proprie stroncature, a ben vedere, in vari punti del libro, in mezzo ai riconoscimenti non esita a segnalare i punti deboli. Così, nei Promessi sposi, il personaggio di Lucia viene trattato con mano piuttosto pesante:

Credo che non ci sia nessun altro romanzo di qualità la cui protagonista femminile sia tanto ottusa e insulsa, ripetitiva dal principio alla fine. Questa contadinotta né bella né brutta, timoratissima, con gli occhi sempre bassi, lacrimosa e tremolante a ogni buon bisogno, ostinata, perennemente sulla difensiva, che parlando di sé non ardisce proferire la parola «amore»; questa devota della propria verginità; questa innocente che, investita dall’archetipo della fanciulla perseguitata, non fa che implorare misericordia, è davvero un personaggio? 

Su Pascoli, quando arriva a Il miracolo, non può trattenersi dall’esercitare una buona critica correttiva:

Potrei commentare a lungo questa bella poesia, viziata tuttavia da un’enfasi che sarebbe stato facile evitare. (…)
L’inizio esclamativo, vagamente evangelico («Vedeste, al tocco suo, morte pupille!»), con quel «Vedeste» ripetuto nell’incipit di ogni strofa, tranne l’ultima, ci mette un po’ a disagio, depotenzia la normalità allucinata delle immagini affidate a prescelti effetti fonici (per un poeta simbolista consapevole della propria poetica le analogie tra colori, immagini, suoni vocalici, non si sarebbero mai appoggiate all’eccezionalità di un «tocco» esterno). 

Va bene l’apertura ermeneutica, la riproposizione dei grandi classici in lungo e in largo, ma poi emergono le preferenze: il comico, lo spirito di Bertoldo, la predilezione per una letteratura «che ride di sé e vede il mondo alla rovescia».  E poi l’amato Leopardi, soprattutto il prosatore («Quando da giovincello leggevo incantato le Operette morali e i Pensieri di Leopardi, il suo scetticismo mi sembrava semplicemente la più naturale e contagiosa delle filosofie»). Nell’ultima parte, tra i moderni ecco la patafisica del Dottor Faustroll di Jarry: «Ogni creatura intelligente ha del patafisico; e quale creatura non è intelligente? Dio è certamente più patafisico che metafisico».
Qui Giuliani è proprio lui e mi fa tornare in mente il ritornello della sua poesia dedicata al Père Ubu:

S’ode lontana l’ombra del vento
Tutto il silenzio tace
Cadono gli onori nell’abisso delle sue tasche.

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