Pier Luigi Ferro, studioso molto esperto di autori otto e novecenteschi (si è occupato, tra gli altri, di Gian Pietro Lucini), ha curato per le edizioni Diana la ristampa dei versi di Profezia di Mario Morasso. L’autore è un po’ dimenticato, ma non ignoto, lo si ricorda soprattutto per gli scritti propositivi in lode della macchina che a inizio secolo hanno anticipato di poco la “tecnolatria” futurista. Con una lunga e dettagliata introduzione, accompagnata da un altrettanto ingente apparato di note, Pier Luigi Ferro ricostruisce assai bene sia l’itinerario dell’autore sul declino del secolo XIX, con la sua attività di giornalista politicamente schierato a destra, sia il contesto dell’epoca caratterizzato dalle istanze nazionaliste e imperialiste, e da un revanchismo borghese antisocialista di fondo. L’«Egoarchia» di Morasso – un individualismo vagamente anarchico ispirato a Stirner e Nietzsche – si può mettere a confronto con il superomismo d’annunziano, avendo ugualmente la pretesa di costruirsi una figura di Vate.
Se i libri morassiani di primo Novecento, come L’imperialismo artistico (1903) o La nuova arma (la macchina) (1905) sono raramente ristampati seppur talvolta citati, Pier Luigi Ferro ci dà qui un esempio del Morasso poeta, ancora più sconosciuto del saggista. E dunque eccoci a leggere Profezia, testo pubblicato in rivista tra il 1899 e il 1900, poi in volume nel 1902.
Come indica il titolo, anche in versi si addicono all’autore i trampoli dell’oracolare e del vaticinante. Se il prosatore non scherzava:
E il Poeta dei secoli venturi ricanterà dei mostruosi Titani figli dell’uomo che nei secoli passati correvano le terre e i mari, lanciando fiamme e fulmini, sollevando la terra e le onde, seminando la ricchezza e la strage, soffiando fiamme ed emettendo ruggiti, per superarsi nella corsa. Descriverà con immagini, che noi non possiamo neppur concepire, la bellezza per noi ignota e i tipi insigni dei nostri colossi meccanici gareggianti. (La nuova arma (la macchina))
Il poeta non è da meno. Toni a forti tinte, confusamente gotiche o eredi di un tardo simbolismo, con punte invero esagerate di esaltazione enfatica. Tuttavia non senza qualche abilità costruttiva. Pier Luigi Ferro analizza giustamente le competenze metriche e sottolinea, ad esempio l’uso dell’enjambement che crea diversi punti di interruzione. Profezia è un testo diviso in componimenti separati in cui l’autore utilizza di volta in volta forme diverse, però prevalentemente rientranti nella struttura base della strofa di endecasillabi rimati. È quindi una metrica meno coraggiosa, per dire, rispetto alla sperimentazione musicale di Alcyone.
Ma soprattutto va rilevata la progressione triadica. Infatti i diversi brani sono riuniti in tre parti: la prima s’intitola Il chiostro dei venti, e racchiude lo scenario cupo del presente, percorso da un ansioso pellegrino; la seconda è Il messia della morte, che indica il cammino penitenziale della sofferenza; la terza, Il messia della vita, vede l’apparizione di una donna seducente, «la creatura del piacere», pars construens e sintesi finale che profetizza la vittoria degli eletti sulla massa degli «uomini servili».
Necessitano almeno un paio di esempi. Dalla prima parte vediamo questo paesaggio con sfumature simboliche e una presenza mitica, la Chimera, che in quel periodo va alla grande:
Monotona nel bianco polverio
si distende la strada, e la riviera
asciutta s’apre come in un desio
d’acque. Guidano, io penso, alla Chimera
le strade della terra od all’oblio?
E questa esternazione della profetessa:
Son l’Indimenticabile, la storia
della conquista più sagace e forte;
più di una bella bocca imperatoria
avida di lussuria; la coorte
mi segue delle suore viziose.
Son più possente dell’istessa morte,
La polemica contro la religione della rinuncia (vedi Nietzsche e il rifiuto del ressentiment) non impedisce poi di dipingere l’alternativa stessa in termini ugualmente religiosi, “messia” contro “messia”.
Insomma, una lettura istruttiva, un libro utilissimo per la comprensione di tendenze lontane più di un secolo e tuttavia quanto mai vicine al nostro attuale “sovranismo”. Morasso scriveva: «Dall’imperialismo conseguono quelle fulgide idealità e virtù sociali che costituiscono la potenza della coesione sociale: fede, patriottismo, gloria, eroismo»; non ci siamo, forse?
Una curiosità: Morasso è deceduto nel 1938, ma la sua attività pubblicistica pare che si arresti più o meno attorno alla prima Guerra Mondiale. O la documentazione mi sfugge, oppure si vede che l’“egoarca” è rimasto senza parole proprio al cospetto della realizzazione pratica delle idee di destra vicine alle sue. A meno che il suo anarchismo stirneriano non lo abbia vaccinato dalle adunate populiste del regime…
22/02/2023
2 pensieri riguardo “Un altro Vate”