E l’intenzione dell’autore?

Un pregiudizio molto tenace nelle cose letterarie è quello che vi vede una esigenza “espressiva”. Poesia o prosa che sia, l’importante è che ci sia sempre dietro un qualcuno che ha sentito il bisogno di dire e di dire agli altri qualcosa che lo riguarda profondamente. Nello scritto una interiorità intima si è estrovertita, quasi per forza propria. Da ciò discende l’idea di leggere per fare la conoscenza di un autore/autrice, che ha posto la sua identità personale in primo piano rispetto alle questioni di modo, stile o scrittura. L’autore/autrice diventa indispensabile: infatti, cosa servirebbe partecipare alla vita di qualcuno che non si sa chi è? Per fortuna, i testi anonimi sono rari e gli stessi pseudonimi appaiono più che altro una trovata pubblicitaria, per scatenare accanite ricerche. E però c’è da chiedersi: cosa cambia se l’autore è un altro? Cosa cambia se si scoprisse che Shakespeare era John Florio o che Elena Ferrante è un maschio? Per giunta, l’industria editoriale ha incentivato gli interventi di editing, per cui una parte di quella espressione autoriale presunta autentica potrebbe essere parto dell’editor. Allora: con chi stiamo empatizzando qui?
A volte, è vero, l’intenzionalità dell’autore è stata enunciata nero su bianco, nei casi di poetica esplicita. Ma anche in questo caso può insinuarsi il dubbio: fino a che punto la dichiarazione dell’autore fa testo? Personalmente sono portato ad apprezzare l’autore consapevole, che sa quello che fa, ma non è possibile che tenga sotto controllo tutti gli effetti. Se così fosse, la critica potrebbe essere congedata; invece l’interprete può vedere meglio dell’autore, non fosse altro per la distanza temporale che gli consente di capire il rapporto tra l’epoca del testo e il nuovo presente dell’interpretazione che non poteva essere previsto nelle intenzioni di partenza.

Di fatto, interpretare un testo significa attribuirgli un “tendere verso”, ossia una intenzione comunicativa. Questa però non necessariamente è riferibile a una esigenza espressiva. Qualunque sia stata l’esigenza espressiva che ha determinato la scrittura, nel testo essa è implicata nella formazione di un “oggetto verbale socializzante”, messo in comune e offerto alla lettura e all’uso altrui.
Ora, il dibattito sul valore dell’intenzionalità si è sviluppato specialmente attorno all’ermeneutica e il suo maggior sostenitore è stato Eric Hirsch che l’ha rivendicata a garanzia contro gli abusi interpretativi e gli oltraggi alla filologia. Per evitare il rischio di una attualizzazione indiscriminata, Hirsch distingue tra meaning e significance, significato e significanza, ovvero tra quello che l’autore ha voluto dire e ciò che vede l’interprete dal suo punto di vista

Troppo spesso si ignora questa distinzione: – leggiamo in Teoria dell’interpretazione e critica letterariasignificato è ciò che è rappresentato da un testo, è ciò che l’autore ha voluto significare mediante una particolare sequenza di segni, è ciò che rappresentano i segni; significanza indica invece un rapporto tra quel significato e una persona o una concezione o una situazione o qualunque cosa si possa immaginare. 

Hirsch sostiene che il significato non cambia, neanche per l’autore: se a distanza di tempo l’autore muta opinione su quello che ha scritto (per esempio lo disconosce) non per questo ne viene modificato il significato. Di questa posizione si può accettare la difesa della storicità della lettera del testo (in “Sempre caro mi fu” non posso sostenere che “caro” significhi che costa troppo); meno il senso comune diffuso attestato su quello che l’autore “voleva dire”. Quello che l’autore voleva dire è quello che ha detto. Per altro, ho incontrato autori ben contenti che il critico scoprisse nel loro testo qualcosa cui non avevano pensato e che lo arricchiva di ulteriori risvolti.
Un altro teorico preoccupato dalle derive interpretative (provenienti soprattutto dall’area americana, decostruzionista e non solo), intendo Umberto Eco, ha risolto la questione con una tripartizione dell’intenzione: alla latina, intentio auctoris, operis, lectoris. Non molto peso dà Eco alla prima, proprio perché possiamo difficilmente metterla a punto; della terza ne parla come di un uso del testo, piuttosto che un’interpretazione; resta quella di mezzo, l’intentio operis. Ecco qui che l’intenzionalità viene depersonalizzata e strappata alla documentazione biografica: l’intenzione dell’opera viene in qualche modo dedotta criticamente, non ha validità oggettiva, ma origina da una congettura ed è passibile di verifica e discussione:

L’iniziativa del lettore consiste nel fare una congettura sulla intentio operis. Questa congettura dev’essere approvata dal complesso del testo come tutto organico. Questo non significa che su un testo si possa fare una e una sola congettura interpretativa. In principio se ne possono fare infinite. Ma alla fine le congetture andranno provate sulla coerenza del testo e la coerenza testuale non potrà che disapprovare certe congetture avventate.

Rileggendo Paul Ricœur ho trovata in Dal testo all’azione una argomentazione simile sulla differenza tra l’intenzione dell’autore e l’intenzione del testo:

Interpretare, abbiamo detto, è appropriarci hic et nunc dell’intenzione del testo. (…) Ma ciò che abbiamo appena detto sulla semantica profonda del testo alla quale rimanda l’analisi strutturale, ci invita a comprendere che l’intenzione o lo scopo del testo non è, primariamente, l’intenzione presunta dell’autore, il vissuto dello scrittore nel quale potremmo trasferirci, ma ciò che il testo vuole, ciò che vuole dire a chi è disposto ad obbedire alla sua ingiunzione. Quello che il testo vuole è metterci nel suo senso, cioè – secondo un’altra accezione del termine «senso» – nella sua stessa direzione. Se quindi l’intenzione è l’intenzione del testo, e se questa intenzione è la direzione che essa indica al pensiero, bisogna comprendere in un senso fondamentalmente dinamico la semantica profonda. Dirò allora: spiegare è liberare la struttura, cioè le relazioni interne di dipendenza che costituiscono la statica del testo; interpretare è intraprendere il cammino di pensiero indicato dal testo, mettersi in marcia verso l’oriente del testo. 

Tralascio il fatto che l’impostazione etica di Ricœur, la quale vede nella letteratura la ricerca dell’identità autentica, porti ad una consonanza con la direzione testuale, precisamente da “ermeneutica dell’ascolto” (l’ermeneutica del sospetto marcerebbe a una maggiore distanza critica); mi preme sottolineare, qui, che questa “direzione” della “semantica profonda” è l’oggetto di una ricostruzione. Nei miei termini, l’intenzione del testo non è altro che una attribuzione di ideologia (ma su questo termine si aprirebbe un altro dibattito che affronterò in una diversa occasione).
Insomma, ci dobbiamo chiarire cosa sia l’intenzione: non solo cosa vuol dire, ma cosa vuol fare e cosa vuol farmi fare. A questo proposito, può servire l’osservazione di Antoine Compagnon, un teorico non imputabile di settarismo perché sempre propenso alla pacificazione delle tesi opposte («la verità sta sempre nel mezzo», egli sostiene). Dunque Compagnon, ne Il demone della teoria al capitolo su L’autore, non nega l’importanza delle informazioni e delle dichiarazioni, però non connette loro un valore definitivo. E precisa che l’intenzione non è “premeditazione” e cioè

L’intenzione d’autore non si riduce quindi a un progetto o a una premeditazione pienamente cosciente (…). L’arte è un’attività intenzionale (in un ready-made, rimane solo l’intenzione di fare dell’oggetto un oggetto estetico), ma esistono numerose attività intenzionali non premeditate né coscienti. Scrivere, se il paragone è concesso, non è come giocare a scacchi, attività in cui tutte le mosse sono calcolate; è piuttosto come giocare a tennis, uno sport in cui non si possono prevedere i movimenti nel dettaglio, ma nel quale l’intenzione generale non è meno ferma: mandare la palla dall’altra parte della rete in modo da rendere il più difficile possibile all’avversario ribatterla. L’intenzione d’autore non implica una conoscenza di tutti i dettagli realizzati dalla scrittura, né costituisce un evento separato che preceda o accompagni la prestazione, secondo il fallace dualismo di pensiero e linguaggio. Avere intenzione di fare qualcosa – ribattere la palla dall’altra parte della rete o comporre versi –, non vuol dire fare coscientemente o progettare.

Vada pure per lo scrittore-tennista. Ma da tennista o scacchista che sia, l’intenzione apre in ogni caso una prospettiva strategica. Per qualcosa o contro qualcosa. La visuale strategica ci chiama alla presa di posizione e tutta la mappatura letteraria prende senso nel quadro di una contrapposizione. Ma come, si obietterà, se prima avevi detto che scrittura è un “oggetto socializzante”, adesso dici che è “divisivo”? Non vedo contraddizione: è proprio perché non è un fatto privato ma pubblico che la scrittura, entrando in società, entra “di traverso” nel dissidio che quella società pervade.

15/092022

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