Pensare il verso

Di fronte a una poesia nuova il critico si trova in imbarazzo, cerca di attaccarsi a qualche precedente, si attacca al metodo che però lo aiuta relativamente perché – soprattutto in mancanza di segnali immediatamente riconoscibili (tipo il metro, la rima e simili) – non sa bene a quale livello testuale sia da dare la precedenza. Insomma, tira un po’ a indovinare. Nel caso di Antonio Francesco Perozzi, l’idea sulla quale provo a scommettere è che ciò che contraddistingue i suoi testi sia il fatto che ogni verso è attentamente pensato. Di solito, per i poeti è invalsa la concezione dell’ispirazione, ed è vero che ispirazione c’è sempre, è il qualcosa che viene in mente all’improvviso. Tuttavia un conto è affermare, come si fa a partire da Platone, che si è ricevuta la parola da un’entità superiore che suggerisce (con un “soffio” impalpabile) quel che si deve dire e un altro conto, del tutto contrario, è che ciò che viene in mente arrivi sulla carta appunto attraverso un filtro mentale.
Questa seconda ipotesi si verificava nel precedente Essere e significare e mi sembra ancora valida per la nuova raccolta di Perozzi Lo spettro visibile, che esce per i tipi di Arcipelago Itaca. Tutto quello che vi si può rintracciare, sia di procedimenti sul significante (come alcuni accapo e qualche scomposizione di parola), sia di particolari usi del lessico, sia di tracce del vissuto personale, come eventi, occasioni e ricordi, tutto ciò e altro ancora viene rifunzionalizzato e, per così dire, concettualizzato nel verso.
Pensare il verso: che poi vale anche nell’altro senso, direzionale, della tendenza implicita che sottende l’espressione.

Il predominio dell’istanza mentale comporta una messa in mora della musicalità e in fondo anche una diminuzione del lavoro sulle immagini. Rispetto alla raccolta precedente noto una maggiore discorsività, tenuta sotto controllo dall’impiego di una visuale scientifica che incide abbastanza sul lessico. Una disamina può essere fatta sull’adozione dell’“io”, croce e delizia del genere lirico. L’“io” qui non è del tutto abbandonato, ma mi sembra che, quando interviene, interviene con una postura, per così dire, “conoscitiva”. Prendo ad esempio Epochè e trovo che la prima persona è relativa a verbi come “apprendere” e “sapere” («Ho appreso…/ so che…»); oppure leggo In prospettiva ariosa: «Se mi concentro…/ so la strada…». A livello stilistico-statistico all’“io” è preferito il “tu”, con tutta la ambivalenza che comporta. Parlare al “tu”, infatti, significa sia autoriflessione interna (o, se si vuole, “monodialogismo”), sia apertura esterna ed esigenza comunicativa verso un lettore chiamato in causa come se fosse interlocutore presente.
Per quanto riguarda il lato della riflessione, essa appare consegnata a una direzione a ritroso, radicale, nel senso che tende a comprendere la “radice” della situazione odierna. Ed ecco allora la discesa in quel territorio impersonale, che è la formazione stessa dell’umano, l’ominazione. Vedi l’importanza che assume, nell’insieme della raccolta, una sezione come “Lo stato animale” e in essa un componimento come Ermeneutica dei vertebrati, nelle sue sezioni che ripercorrono l’evoluzione dalla vita marina fino all’attuale invasione del globo; proprio l’esito finale comporta una considerazione dell’anello sbagliato («La società nasce da un grave errore / di adattamento…»). O ancora si veda il passaggio tra i regni animale, vegetale e minerale in Pianta, animale, vortice, Dio.
Di tenore scientifico è anche il titolo complessivo della raccolta, Lo spettro visibile, che rimanda in prima battuta alla gamma dei colori e quindi alla varietà delle componenti di un fenomeno (e proprio sulle corrispondenze dei colori si basa Cromosistemi). Ma non si può sottovalutare un rinvio alla spettralità. Tanto siamo ormai invasi e immersi nella “società dello spettacolo” e nella “realtà virtuale” – e non tocchiamo neanche più con mano quella materia decisiva che è l’economia, il denaro – che pare legittimo vedersi spettro tra spettri. Non per caso è citata, proprio all’inizio di Singolarità di sostanza, la celebre sentenza di Nietzsche «non esistono fatti ma / solo interpretazioni», sorta di iscrizione sul portale dell’epoca postmoderna. Ma il pensiero, se non vuole ridursi a girare a vuoto su se stesso nel gioco di specchi dell’edonismo narcisistico, dovrà cercare una via d’uscita verso l’oggetto: sarà un pensiero residuale (un testo di Perozzi ha proprio questo titolo) come “residuale” sarà il suo oggetto, individuato tra il minimo, il mero esistente.
Rilevanti in questo senso sono il tarassaco e il fico, rispettivamente in Inconfutabilità del tarassaco e Amnio. Nel primo, un volgarissimo e comunissimo fior di cicoria si mostra impenetrabile all’inquadramento così come alla sublimazione: «nessuno / tra i vari esercizi di esalazione della realtà / scioglierà questa creatura». Il secondo fornisce una lezione dell’esistenza del pre-umano («So benissimo / immaginare il tuo corpo / eretto già prima della sintassi»; e: «cosa – mi chiedo – / vuol dire il Mesozoico, l’assenza / di bipedi, la nessuna eco- / nomia?…»), anche la sua “accettazione” può avere bisogno di una controprova piuttosto negativa: «facciamo così: adesso io / prendo una scure e ti dilanio» (dove l’oggetto è fatto ritornare un bersaglio contrastivo proprio per avere la certezza che esista). Residuo materiale è il corpo, una delle poche cose che ancora non riusciamo a infilare nel computer. Più che la superficie corporea – ché quella non ci vuol niente a trasferirla ad un avatar – proprio le ossa («le ossa della specie, le ossa dei midolli…»). Una poesia ridotta all’osso.
L’apporto scientifico potrebbe far pensare a un ritorno di poesia didascalica e ciò si potrebbe confermare dall’uso del “tu” come destinatario di una sorta di pedagogia – magari ce n’è traccia di passata in L’acidità del suolo: «No, non così… / Ma intanto ora sai…». Epperò questa voce non è mai pontificante e lo spettro ottico sovente coincide con la cecità («Quindi è cieca – e questa / cecità per ora la chiamiamo /attesa»; «oltre la scorza dentro cui sei cieco»; «Ho appreso dalla cecità del mattino»). Certo, lo sguardo sembra essere l’estrema risorsa; potremmo dire, una poesia dell’osservazione. Indubbiamente, qui Perozzi recupera un tratto analitico, per individuare qualcosa di esistente da sottoporre a prova e verifica (già in Caduta: «Ora la prova si incentra… / Sono tentativi…»).
Si tratta, se capisco bene, di approfittare dei punti di sfaldamento della realtà codificata. Vediamo come procede il “verso pensato” nel testo intitolato I punti di saturazione, che qui vale come testo-campione:

Succede più spesso di quanto credi
che una chiazza della realtà si sgretoli
e riveli in obliquo il criterio di
mondi lontanissimi: i suoi
punti di saturazione. Per dire,
prendi questa stecca di alloro – che poi
è solo obbedienza di fibre a un dato
baricentro di esistenza, di gravità, per dire:
ecco, qui si estende qualcosa, lo puoi
toccare – oppure prendi (è uguale)
il fiato che ci vuole a fare
questa salita, un falsopiano – che poi
sono appena momenti della città e a fare
la critica delle molecole ci vuole niente
per bruciarli o convertirli in ipotesi
di aggregazione: l’asfalto alla fine
bitume ben steso, il bitume
una miscela di idrocarburi e questa mattina
la fanno un cinque dicembre,
un paio di schiene, un preciso ordinamento
di particelle (subatomiche, superatomiche…) –
sono degli ottimi esempi di arsura:
in un giorno a caso – fai domani –
cava l’osso alla natura loro e guarda
che da una leva di case ci viene
preciso un pozzo di elettroni; è un fatto
di granuli e messe a fuoco – poi basta
poco a convincersi di questa terra che non si sa
mai dove comincia.

Fare la prova («Per dire, / prendi… / oppure prendi… / fai…»), guarda bene e qualsiasi “qualcosa”, per quanto naturale (l’alloro, il respiro) si scompone e si rivela retto da un equilibrio precario e provvisorio, composto di particelle e di punti di aggregazione. La poesia, per Perozzi, è precisamente un fatto di messe a fuoco, sempre più accurate e stranianti.

02/05/2022

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