Modernità e dissonanza

A fondamento dell’estetica classica c’è la repressione del discordante: basta vedere l’attacco dell’Ars poetica di Orazio e il suo rifiuto dei mostri, la testa umana sul collo di un cavallo o la donna con la coda di pesce. Sarebbero congiunzioni inconseguenti e disdicevoli, modi orribili e destinati al ridicolo (“sapreste, amici, trattenere le risa?”). Sarebbero improprietà, anomalie, accoppiamenti non conformi; séguiti che non consuonano con quanto li precede.
Per un sacco di tempo – e, c’è da scommetterlo, ancora oggi – l’armonia è assurta a valore estetico preminente, accompagnata dalle sue consorelle proporzione, parallelismo, simmetria. In esse c’è la promessa della ripetizione e il piacere del ritrovamento regolare dell’identico che esorcizza il timore della perdita (vedi anche, in Freud, il bambino con quel rocchetto che va e che torna). Il ritmo elementare di tensione e distensione, simile al respiro, al battito del cuore. Effettivamente, pare che il nostro stesso corpo coincida con questa funzione di alternanza confermativa.
Dunque la dissonanza è esclusa? Sarebbe soltanto un passo falso, un’aritmia, una stonatura, una patologia insomma nell’universalmente umano dell’armonia?

La questione è prima di tutto musicale e il modello canonico è la successione garantita degli accordi di tonica-dominante-tonica. Umberto Eco (in Opera aperta) ha segnalato che si tratta di una struttura portante dotata di una significazione profonda: «un sistema di dilatazioni e di crisi appositamente provocate al solo fine di poter ristabilire, con la riconferma finale della tonica, una situazione di armonia e di pace». Una struttura che va anche al di là dello specifico musicale, tanto che Eco la applica, per dire, perfino al romanzo giallo. Nello stesso periodo Silvio Ceccato, rappresentante importante della Scuola operativa, ne La fabbrica del bello generalizzava il procedimento ritmico, indicando la «ripetizione variata» come una legge «che affonda le radici nella memoria biologica», garante di continuità, coerenza, ecc. Tuttavia, già da queste indicazioni di origine diversa appare chiara una cosa: la funzione essenziale del negativo. La risoluzione che arriva alla fine, scontata e comunque benaccolta da un sospiro di sollievo, non ci potrebbe essere se prima la crisi non avesse violato e messo a repentaglio la situazione iniziale. Se l’armonia è un ordine che vince il caos, ciò è reso possibile proprio dall’incrinatura dell’ordine stesso. Senza la dissonanza, nessuna armonia.
Tra l’altro, è interessante notare come l’idiosincrasia del classico per il “discordante” si prolunghi ancora in epoca moderna: e in particolare potremmo parlarne anche a proposito del romanticismo. Per quanto abbia allontanato le retoriche e le normative in nome dell’autenticità interiore, l’estetica romantica conserva la legge dell’armonia come garante dell’unità del molteplice esistenziale. All’arte spetta il controllo delle dissonanze. Qui, rispetto al disprezzo e al ridicolo oraziani, siamo in una sfera diversa: è come se l’armonia valesse proprio nel momento in cui è messa alle strette, ossia quanta più dissonanza contiene e domina. La dissonanza, quindi, viene incentivata, proprio al fine di venire infine “colonizzata”. A qualcosa del genere allude anche Eco, quando aggiunge, proseguendo il passo sopra citato, che l’armonia è «tanto più goduta quanto più la crisi è stata protratta e articolata».
Ma la modernità nel suo processo – e soprattutto nei dintorni del Novecento – è caratterizzata dalla perdita di unità e di centro. Conseguentemente dal passaggio dal canone (norma estetica che deve valere per tutti) alle tendenze (le poetiche diverse in concorrenza e in lotta). In questo quadro, l’armonia perde l’aspetto di un assetto proveniente dalle profondità biologiche e si trasforma in una questione dotata di prospettiva storica, per giunta ambivalente: infatti da un lato essa si presenta come utopia, promesse du bonheur, prefigurazione di quella concordia sociale che le disuguaglianze negano nella realtà; dall’altro lato, proprio per questo, la dissonanza potrebbe pretendere per sé la parte del maggiore realismo. A meno che l’armonia non volesse affermarsi come principio d’ordine, alleato di quello sociale dominante e in fondo il suo essere data come naturale può essere effettivamente visto come omologazione costrittiva.
Nell’instabilità dell’estetiche moderne, la questione della “buona forma” si pone in altro modo, cioè per fasi: la prevedibilità del ritorno perde di interesse e deve essere risvegliata dall’effetto sorpresa (ancora Ceccato: «Certe valutazioni, svalutazioni e rivalutazioni si spiegano con il succedersi di una novità, una assuefazione, una disassuefazione e la riapparente novità»).
Secondo l’Adorno della Teoria estetica, nella modernità l’armonia si dimostra un ldeale irraggiungibile, come la perfezione: e, se fosse raggiunto, sarebbe così cogente da essere la negazione dell’espressione; al contrario «dissonanza significa lo stesso che espressione» (così come – aggiungo io – la vita significa disordine). Ma forse l’Adorno cui è opportuno ricorrere qui è quello della Filosofia della musica moderna, in particolare nella parte dedicata alla dodecafonia. Non c’è solo “l’emancipazione della dissonanza” (per usare un titolo di Thomas Harrison dedicato all’arte di inizio Novecento), ma la dissonanza, oltre a non essere semplicemente un momento distruttivo destinato a sua volta a venire soppresso, si dimostra, teste Adorno, addirittura più “razionale” dell’armonia:

la dissonanza resta ancora più razionale della consonanza: essa pone infatti dinanzi agli occhi, in maniera articolata se pure complessa, la relazione dei suoni in essa presenti, invece di conseguirne l’unità mediante un impasto “omogeneo”, cioè distruggendo i momenti parziali che contiene.

Dopodiché, da acuto dialettico qual è, Adorno scava nel paradosso dodecafonico, ossia: c’è ancora dissonanza quando c’è solo dissonanza? La risposta è positiva, pensando a nuovi tipi di accordi, e ciò vale a scartare il preconcetto di passività della dissonanza che essa sia possibile «solo nella tensione con la consonanza».
Infatti la dissonanza può sussistere senza armonia, come campo aperto, plurilinguismo, eterogeneità e via dicendo. Resta però ancora una obiezione, quella del piacere. È possibile staccare la dissonanza dalla sua associazione con il dispiacere, la frustrazione, la delusione dell’attesa? È soltanto un piacere rovesciato, sostanzialmente masochista, frutto dei sensi di colpa dell’uomo occidentale? Intanto può essere una sorta di meta-piacere, sorto dalla consapevolezza dei limiti dell’armonia e dal controllo dei suoi meccanismi. Inoltre, si può constatare che esiste un gusto per la dissonanza, legato alla pulsione infantile e più in generale al piacere della libertà: qualcosa di simile all’appropriazione dell’oggetto, reso vicino nel riso (di cui parla Bachtin).
Legati insieme, il montaggio e la dissonanza diventano cifre fondanti dell’arte disorganica dell’avanguardia. Che ci allena a considerare dei nostri anche centauri e sirene e altre eventuali diversità.

20/04/2022

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