Ho conosciuto Roberto Bugliani nel collettivo redazionale delle riviste di Luperini, “L’Ombra d’Argo” e poi “Allegoria”. Erano gli anni Ottanta-Novanta, densi di discussioni e di studi controcorrente, quando volevamo mettere la critica marxista migliore a confronto e in conflitto con le nuove proposte dell’ermeneutica e della decostruzione. Interscambio e dibattito che oggi ce li sogniamo…
Ritrovo ora Bugliani come autore in prosa e in versi. In prosa ha pubblicato pochi anni fa il romanzo La disciplina dell’attenzione (Link edizioni) ambientato in quella America Latina che ha ben frequentata in chiave politica e letteraria: una proposta narrativa senza indulgenze buoniste, piuttosto con una costruzione complessa e punti di distacco tra narratore e personaggio. Vorrei però soffermarmi qui soprattutto sul libro in versi, L’età detestabile, edito recentemente da Transeuropa. Il titolo potrebbe far pensare al portato della senilità, una sorta di “musa canuta” o di “stile tardo”. Invece, si afferma subito come una dichiarazione di drastica critica sociale, derivato com’è da una citazione del Don Chisciotte posta in apertura: «in un’età tanto detestabile qual è questa in cui ci troviamo oggi a vivere». Dichiarazione decisa di non-appartenenza, di estraneità non omologata. Eppure, la poesia di Bugliani non esprime semplicemente una resistenza, ma lo fa a modo suo: in particolare mi ha colpito il trattamento a cui sottopone l’immagine naturale, tanto di casa nella lirica a buon mercato.
La poesia funziona in Bugliani come spazio di intersezioni. Una intersezione fondante è quella tra parti in versi e parti in prosa, ovvero tra il carattere tondo e il corsivo, o, per cercare di capire ancora meglio, tra discorso argomentativo (che importa qui addirittura le note a pie’ di pagina) e la tonalità espressiva. Intersezione e interferenza che si rivela particolarmente efficace, appunto nel trattamento dell’immagine naturale.
Non intendo tanto riferirmi all’uso metaforico di entità naturali (tipo il classico “Achille è un leone”), quanto piuttosto alla rappresentazione della natura che sta alla base della tradizione lirica, come ambiente propizio all’io poetico “solo e pensoso”, un rifugio dell’anima pacificante e redentore delle bruttezze e asperità della vita. Che, semplicemente esistendo sullo sfondo, evoca una alterità sublimante. Questo scenario, evidente in alcuni titoli (Paesi, In campagna), viene ricomposto qui con un preciso intento dialettico. Altro che paesologi! Il naturale è investito da un continuo controcanto non già con il livello umano-psicologico, bensì con il livello collettivo delle cattive politiche; e il passaggio di registro viene sottolineato per bene, sia in un senso (dopo aver denunciato i guasti «del mes dello spread del cambio fisso… passo pertanto la parola al paesaggio / che non ha acronimi») che nell’altro, quando – a una sola pagina di distanza – i missili e le bombe delle guerre postmoderne interrompono il flusso dei ricordi d’infanzia.
Ma soprattutto è caratteristico del poetare di Bugliani quello che chiamerei il contagio antropomorfo. Le entità naturali prendono comportamenti umani ben al di là di qualsiasi “animismo”, in quanto assumono proprio quelle forme di deriva economica delle quali dovrebbero essere il contraltare. Possono essere uccelli:
con quell’aria circospetta
che mette su la merla
sul far dell’autunno
mentre il tordo dall’alto d’un ramo l’osserva
le strategie mercantilistiche mettere in atto
in deroga agli accordi bilaterali
con sguardo ribaldo, il verme nel becco
Oppure vegetali:
vilucchi e verbene, a dettare
il quadro geopolitico, cedrina ed erba persa
sconfitte ripiegano in note a pie’ di pagina, mentre
in ordine sparso violacciocche, genzianelle, euforbie
non sapendo a che santo votarsi, fanno
di necessita virtù, impallando l’alba
dei loro riverberi multicolori, su sfondo cartongesso
senza che bussola soccorra, alla bisogna
E ancora:
istigare la genziana
a rivalse e contromisure, come se non sapesse
i parametri dell’ombra, nel bosco screziato d’umori
dove castagni svelano l’arcano, e il lentisco s’ammanta
di lusinghe e dolci inganni, cromature d’immagini
in forza da sempre alla burocrazia europea
Come dire: nessuna innocenza e nessun conforto. L’interferenza del naturale con il socioglobale produce un’allegorizzazione complessa, una sorta di chiasma dove anche la natura è contaminata e, di converso, la politica è naturalizzata nel capitalismo selvaggio della legge del più forte. E dove, ancora, se la natura continua a indicare pur sempre un’alterità radicale, indifferente all’uomo, dal canto suo il mondo umano dello sfruttamento continua a emarginare corpi come residui rigettati nella natura.
Fin dal titolo, che indica l’opposizione alla propria epoca, la poesia di Bugliani è attraversata dalla polemica, che si vale dello sdegno e dell’invettiva, a partire dalle battute iniziali con quel rifacimento della “fontana” palazzeschiana in cadenza escrementizia («ploff / ploff / plofff»). Un’invettiva che è rivolta, prima ancora che al mondo, alla poesia stessa quando si vuole emissione interiore, virata però in miasma («l’afrore / del suo io costipato!»). E anche: «’st’odore di lessemi fermentati, ’sto conato (…) ’sto coacervo di nobil sentire che infiocchetta / le puzzette dello spirito».
Una poesia della contraddizione, che nega di essere «ancella della politica» e però, uscita dalla porta, la fa rientrare dalla finestra a ogni momento, non può non avere pure un risvolto acutamente autocritico. Bugliani fa parte di una generazione segnata dall’eccesso di utopia («C’eravamo tutti ad assalire il cielo. / E nessuno si ritirò senza lasciare parte di sé nell’assalto»), alla quale rimane il compito di un lavoro rigoroso nella complicazione. Ancora detto mediante il trattamento politico dell’immagine naturale (“solo e pensoso”, sì, ma a modo suo):
Primo attraversamento
del poeta che fa
due passi nel bosco e si stupisce
dell’imbroglio di sterpi e felci in cui è finito.
Sgomento gli tocca tornare indietro
a dipanare immagini aggrovigliate