Praticata sempre meno l’analisi del testo (ma di questo parlerò in altra occasione), l’approccio letterario appare sempre più abbandonato alla descrizione biografica o alle impostazioni morali-contenutistiche magari con risvolti empatici. Un estremo fronte di resistenza della prospettiva linguistica – dato che alla fine un testo qualsivoglia è fatto di parole – è rimasto lo stile, che ancora da varie parti riscuote qualche consenso. Forse perché, al contrario delle pretese scientifico-oggettivistiche del passato, è una nozione più flessibile e più adattabile alle pratiche della critica letteraria. E forse anche perché, in Italia, uno dei principali critici novecenteschi è proprio uno stilcritico come Gianfranco Contini. E a livello europeo c’è stato un Auerbach che tra l’altro ha saputo contemperare nel suo capolavoro, Mimesis, l’attenzione al linguaggio con l’orizzonte delle grandi epoche storiche. Insomma, la stilistica pare ancora godere, nei limiti del possibile, di buona salute.Certo, oggi non funzionano più le due grandi linee della stilistica del Novecento: quella dei livelli gerarchici e quella del carattere individuale. Da una parte l’articolazione classica dei tre livelli, alto medio e basso, che aveva bisogno di rispecchiarsi in una società rigidamente divisa; dall’altra lo “stilema” come mossa tipica di un autore, atta a riconoscerlo in qualsiasi occasione. Oggi le scritture che passano al filtro del mercato (e alle correzioni dell’editing) si vedono proprio decurtare quelle “deviazioni dalla norma” sulle quali si basava la critica stilistica e l’unica prospettiva di applicarla è quella di dare dignità di stile precisamente alla sua assenza (lo stile del senza stile…). Nello stesso tempo, il termine è passato al mondo della moda in cui si trovano sì gli stilisti con le loro eccentriche provocazioni, che però non son altro che spunti creativi tendenti a evidenziare un marchio, senza alcuna valenza ulteriore.
Ma forse, come spesso avviene, è inutile fondare su una nozione una linea di resistenza (come fa, nel nostro caso, quella critica che vorrebbe salvare il “Grande stile”, contrapponendolo alla bassa qualità del romanzo di consumo). Invece di farsi puri conservatori è meglio provare a rendere le nostre nozioni più duttili e articolate, in modo da elaborare con esse una controproposta alternativa. A proposito dello stile, allora, si potrebbe allontanarlo dall’idea di “distinzione” (non solo letteraria: “quella persona ha stile”), alla fine legata a un privilegio di classe (anche il termine “classe” ha i suoi bravi risvolti polisemici). Anche se è vero che gli stilemi caratteristici restano fondamentali per l’attribuzione in caso di anonimato dell’opera, tuttavia possiamo seguire l’avvertimento di Sanguineti e conferire all’attribuzione stessa una portata più ampia: chiamandola in causa non solo quando manca il nome dell’autore, ma in ogni caso, poiché si tratta di «dedurre un autore dal testo» (manovra contraria a quella della critica biografica che deduce il testo dall’autore); e questo però non significa solo il nome del responsabile (che quasi sempre possediamo fin dall’inizio), ma che tipo di autore è quello con cui abbiamo a che fare, da che parte sta, con chi ce l’ha, cosa cerca di dimostrare, cosa vuole farmi fare, e via dicendo. «Si deduce un cosmo, quando si deduce un autore», dice ancora Sanguineti ne La missione del critico, saggio fondamentale da leggere e rileggere.
Lo stile allora non è più soltanto un fatto statistico (quali parole sono usate più spesso, quali segni di punteggiatura, ecc.) e neppure più una questione lessicale (arcaismi, dialettismi, ecc.), ma deve arrivare a coinvolgere l’intero impianto costruttivo. Oltre alla già famosa “mescolanza stilistica”, si dovrebbe mettere in conto la molteplicità degli stili e la loro contraddizione. Lo stile come strategia. In questa linea si è mosso in particolare il lavoro teorico di Giovanni Bottiroli, da Teoria dello stile (che è del 1997) al più ampio e impegnativo La ragione flessibile (2013), lavorando sui registri e i regimi linguistici. E sottolineando lo stretto legame tra “stile” e “conflittualità”:
Lo stile, cioè gli stili, (…). Ma il contributo che il concetto di stile può offrire alla filosofia non è un’ennesima enfatizzazione del molteplice: lo stile è una forza che divide. Dunque lo stile va associato alle scissioni, alla potenza scissionale del linguaggio, e del pensiero. Soltanto a partire dallo stile potremo comprendere l’eterogeneità e la flessibilità della mente, il pluralismo logico e semantico, l’identità come conflitto.
Non dimentichiamo che stile deriva dallo “stilo”, la punta che incideva le tavolette cerate degli antichi. E il diminutivo “stiletto” era una vera e propria arma. Allora togliamo alla nozione il timbro della descrizione neutra e pure quello dell’impulso ghiribizzoso e vediamolo nel contesto di un campo di forze, di spinte e controspinte, un’intensità, sì, ma divisiva in un quadro polemico.
La visuale strategica dello stile non è senza conseguenze: Innanzitutto, l’agire strategico prevede la supposizione di una oggettività della situazione, però tutt’affatto ipotetica (e giustamente Bottiroli ha parlato di una “ragione flessibile”). C’è poi il problema che la metafora militare – come avviene per l’avanguardia – faccia storcere il naso non solo ai neoromantici ansiosi di preservare la poesia come regno della pace, ma anche ai debolisti che vi vedranno un maschilismo prevaricatore. Occorre precisare cosa e dove sia il nemico nella strategia stilistica. Perché può essere esterno (come nelle modalità satiriche), ma è propriamente nel complesso esterno-interno: lo stile, infatti, è un modo di muoversi nel linguaggio e qui ritorna utile la prospettiva della deviazione dalla norma, a patto di articolarla non solo in senso grammaticale o lessicale, ma anche rispetto ai generi di discorso e, in ultima istanza, alle ideologie dominanti. Nella modernità radicale, lo stile può essere una mossa del testo contro se stesso, arrivando perfino a minare gli obblighi di unitarietà, coerenza e sensatezza (cioè: si fa critica e autocritica). Dunque strategia a più livelli, a più strati e più obiettivi.
13/11/2021