C’è empatia ed empatia

Negli ultimi tempi nella teoria della critica letteraria circola con frequenza quello che chiamerei il “teorema dell’empatia”. In realtà non si tratta di una tesi solo letteraria, ma di un indirizzo agganciato a una proposizione in generale progressista. Comunque, in sintesi, il teorema dell’empatia dice: i comportamenti violenti e intolleranti che manifestano un rifiuto dell’altro sono dovuti a una carenza di empatia. Se ci si mette nei panni del diverso-da-noi non si può più desiderare di eliminarlo. L’empatia – che è iscritta nel cervello umano nei cosiddetti “neuroni specchio” – è dunque prosociale, incentivarla vuol dire produrre un incremento di agire morale. A controprova, mancanti di empatia sono gli autistici e gli automi (si veda anche la fantascienza di Philip Dick dove, per scoprire gli androidi, si controlla per l’appunto l’empatia). Corollario letterario del teorema: la letteratura e in particolare la narrativa è una scuola di empatia; infatti con l’immedesimazione nel personaggio ci addestra a entrare dentro un altro e a provare le sue stesse emozioni e tale ginnastica mentale può favorire l’aumento dell’empatia generale e quindi il miglioramento delle relazioni umane.
Mi pare che questa tesi, rafforzata di solito dalle ricerche statistiche legate alle neuroscienze (e ai “neuroni specchio” come accennavo) vada considerata con attenzione nei pro e nei contro, non fosse altro che per il motivo che toglie molto spazio alla critica.

Intanto perché eleva a livello assoluto i modi che una volta si sarebbero detti del “lettore ingenuo” (che si immedesima, si preoccupa per la sorte del personaggio, piange se quello muore, ecc.); e secondariamente perché fa d’ogni erba un fascio, non consentendo altro che di distinguere tra finzioni immedesimanti e finzioni che non consentono lo stesso grado di immedesimazione (per cui le uniche da respingere sarebbero le scritture allegoriche, stranianti o sperimentali).
A mio parere la questione è l’ampiezza confusa dello stesso concetto di empatia. C’è empatia ed empatia. E non a caso alcuni autori hanno cercato di operare una distinzione all’interno della nozione. In un libro abbastanza recente (How to Read Literature, del 2013) Terry Eagleton separa empatia e simpatia, a favore della seconda, proprio in quanto la prima impedisce il giudizio:

Sophocles is not inviting us to empathise with Oedipus. The play expects us to feel pity for its doomed protagonist, but there is a difference between feeling for someone (sympathy) and feeling as them (empathy). If we merge ourselves imaginatively with Oedipus, how can we pass judgement on him? Yet this is surely an important part of what criticism involves. To judge involves holding something a little at arm’s length, a move which is compatible with sympathy but not with empathy. 

In un altro luogo, lo stesso autore parla di «empathetic fallacy» e aggiunge: «pure empathy is at odds with the critical intelligence required for understanding». Un’altra distinzione, tra empatia cognitiva e empatia emotiva, la trovo in un libro di Paul Bloom piuttosto interessante perché contrasta l’empatia emotiva proprio sul piano morale (il titolo, Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, dice già tutto), promuovendo semmai la compassione.
Il dibattito, per fortuna, ferve e dopo i primi entusiasmi spero che le riflessioni si facciano più stringenti. Perché c’è empatia ed empatia: dipende da con chi si empatizza (anche il fascista empatizza fortemente con il suo duce) e da chi la usa. Infatti, una volta che abbiamo rilevato le facoltà dei neuroni specchio, queste possono essere sfruttate in modi nient’affatto caritatevoli e assai preoccupanti: sfrutta l’empatia il seduttore che coglie i punti deboli per attrarre ai suoi fini; la sfrutta il pubblicitario che con questa capacità trova lo slogan giusto per indurre all’acquisto; la sfrutta il politico per acquisire consensi. In tutti questi casi, probabilmente poco “umanitari”, serve munirsi dell’invito di Brecht a non “lasciarsi sedurre”…
Anche il romanzo che coinvolge il lettore, lo “prende”, come suol dirsi, e lo chiama a partecipare, bisogna vedere cosa fa e come. Ci possono essere dubbi sui grandi protagonisti negativi, ad esempio nel romanzo del dittatore: anche se l’intenzione dell’autore è di stigmatizzare la mostruosità di questi eroi del male, però ponendoli ad eroi protagonisti non c’è il rischio che scatti l’immedesimazione? In questo caso sarebbe meglio che l’empatia venisse sospesa. Anche l’invito a entrare nella figura del protagonista o comunque in un personaggio a tutto tondo è un incentivo all’individuazione che tocca uno dei limiti che sono stati constatati in generale riguardo all’empatia, cioè che ci muove nei casi singoli più che in quelli generali. Non ultima cosa la letteratura empatizzatrice avrebbe per effetto di aumentare il nostro coinvolgimento emotivo e diminuire l’esercizio del ragionamento: siamo sicuri che sia un bene per la società?
Aumentare, poi, non saprei. L’invasione della rete con foto di micetti dagli occhi sgranati non sembra che abbia bloccato le intenzioni di voto a favore della destra xenofoba e omofobica. Più che aumentare, forse consumare: non è improbabile che abbiamo un quantitativo limitato di empatia e il romanzo delle vittime può darsi che ce lo esaurisca e, chiusa la pagina, ci sentiamo paghi dei sentimenti provati nella lettura e chiudiamo gli occhi su quelli esterni. Insomma, le valenze benefiche dell’empatia narrativa sono dubbie, di corta durata, probabilmente di scarsa qualità, se l’empatia è provocata con effetti facili da scritture poco problematiche.
E però anche nel romanzo un’altra empatia è possibile. Ed è possibile proprio attraverso le scritture apparentemente non richiedenti empatia. Con l’allegoria, lo straniamento e lo sperimentalismo come si fa ad empatizzare, se il senso è altrove, se il personaggio è messo sotto deformazione, se è il linguaggio a fare da protagonista? Ebbene, la via c’è ed è quella di empatizzare con l’autore: domandarsi perché l’autore mi presenta queste immagini, queste caricature e queste acrobazie di scrittura? Potremmo definirla una empatia critica che ci consente di andare oltre la prima impressione del testo: sarebbe proprio il caso di metterla in atto non solo nei casi che la suggeriscono, ma in tutti i casi, compresa la narrazione più commovente che ci sia (perché l’autore vuole assolutamente che io pianga?).
Teniamo presente l’indicazione di Brecht:

Togliendo all’immedesimazione il suo posto predominante, non si sopprimono le reazioni sentimentali che dipendono dagli interessi e che li favoriscono. La tecnica dell’immedesimazione permette appunto di organizzare reazioni sentimentali assolutamente estranee agli interessi. Uno spettacolo che faccia ampia rinunzia all’immedesimazione permetterà una presa di posizione in base ad interessi riconosciuti validi, una presa di posizione, cioè, il cui lato sentimentale concordi perfettamente col lato critico.

Per Brecht, come si vede, critica e sentimento possono convivere e trovarsi dalla stessa parte. Ma, già, Brecht è un diavolo di dialettico capace addirittura di parlare di “godimento critico”… Se Brecht vi sembra troppo schierato, prendiamo allora Paul Bloom con il suo libro sopracitato (uscito per la precisione nel 2016). Questo Bloom, da non confondere con Harold, il guru dei grandi capolavori del canone, è un onesto moralista americano, quindi non sospetto di tendenziosità. Ora, egli suggerisce di pensare ai terapeuti e ai chirurghi: in queste professioni ci si interessa eccome agli altri e al benessere dei singoli nella società sul versante psichico o fisico; eppure l’empatia serve relativamente e quella emotiva addirittura può diventare un intralcio alla lucidità tecnica di queste operazioni. Una lucidità che non sarebbe male ritrovare negli scrittori al posto dei patetici tentativi di “emozionare”.

04/05/2021

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