Interviene Contiliano: Le astuzie e i depistaggi del neocapitalismo

Ricevo e pubblico un nuovo intervento di Nino Contiliano:

Le astuzie e i depistaggi del neocapitalismo

Un vecchio adagio recita: il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Così se la rivoluzione post-fordista dell’economia capitalistica si è riciclata attraverso l’economia della conoscenza, quella codificata degli sviluppi della cybernetica e della tecnologia digitale open source (sempre più avanzata e personalizzata nei luoghi, nella tempistica e nelle prestazioni), il cuore del suo vizio capitalistico – la logica del valore privatizzato (oggi global value chain, e shared value), o la ricerca del business/profitti come valore condiviso – è rimasto immobile. Condivisione. Parola magica. La magia che imbriglia e imbroglia gli stessi produttori del valore, gli sfruttati. Neanche riciclati. Coinvolti nella catena della valorizzazione fino all’esaurimento della forza creativa, sono imbavagliati, svalorizzati e poi, esauriti, pronti per la discarica usa-e-getta.

Immobile, come è il principio di moto e quiete uniforme (inteso meccanicamente: rapporto di dipendenza causale-lineare fisso tra le parti) nel mondo delle scienze fisiche galileane-newtoniane, la logica del valore (e delle forme espropriative più sofisticate e psicologizzate) rimane ancora la causa agente fondante e astuzia vincente (per di più suonate nella sinfonia del “tempo reale” coralizzata). Un principio esca. Un miscuglio che, trasferito sul piano dei rapporti sociali e umani organizzati dal nuovo paradigma post-fordista cybernizzato, schematizzando, significa conservare certe comprovate “condizioni” di disuguaglianza sociale, stili di vita e annessi disagi sine cura identitaria che non sia la colpevolizzazione desocializzata e depoliticizzata dei singoli. Colpevole così è solo l’individuo che, prima formattato e indebitato, e poi abbandonato, viene tombizzato con la narrazione della serena lapide sia del “dulce est pro patria mori”, che del “dulce est pro patria disipere”, ovvero “per la patria è gradevole produrre assurdità” (Paolo Fabbri, Identità: l’enunciazione collettiva, in «Aut Aut», n. 385, marzo 2020, p. 174). Una mirata incitazione alle realizzazioni alienate.
Alienanti identità transitive che non risparmiano nessuna vita di relazione con le sue azioni e passioni. L’open innovation (contributi dall’esterno) e l’open organization (plurisoggettiva e multi-livello, globale, metropolitana, locale) infatti non hanno né azzerato né diminuito i dislivelli e le patologie diversamente nominate, compreso quello che oggi viene menzionato come stadio del lavoro povero – working poor – e dello smart working (lavoro agile e a distanza). Non ci sono più, infatti, solo la divisione del lavoro, gli sfruttamenti, le asimmetrie e le diseguaglianze sociali (governate da un comando rigido e piramidale); la nuova organizzazione e la sua gestione infatti, grazie a un coinvolgimento di senso condiviso solamente dal punto di vista tecnico-scientifico (sense making), perpetuano egualmente la logica, sebbene senza possesso diretto dei mezzi di produzione, della valorizzazione proprietaria competitiva, cinicamente individualistica. Svalorizzata è la stessa vecchia etica emancipativa del lavoro come attività liberatoria. Poco o niente vale, per unità di progetto, la stessa collaborazione pluralizzata, l’assunzione di rischi e le psico-incentivazioni (volte all’autonomia e all’auto-organizzazione e, a un certo livello, persino a certe responsabilità di comando come pubblica decisione). La co-operazione collettiva rimane sotto l’egida dell’astuzia della logica del valore neoliberista (per di più telematizzato e digitalizzato) dei profitti e delle rendite privilegiati dell’1% sul 99% della popolazione mondiale.
Come un “conatus” spinoziano snaturato, il business (il profitto/rendita) del post-fordismo, il capitalismo immateriale/spirituale, digitale e flessibile (quello della conoscenza codificata in bit riproducibili e trasferibili a costi zero ma con grossi profitti sui mercati globali), non punta più solo agli utili delle merci, al fatturato, alla produttività ininterrotta e al pluslavoro/plusvalore rubato ai lavoratori/trici. Mira sempre più a ottimizzare i tempi dell’accumulo monetario e finanziario e quelli dei dispositivi di potere di ogni ordine e grado (costituzionali, legislativi, etici, associativi, giuridici…). Per aumentare i profitti, la riduzione dei rischi, accelera i ritmi lavorativi, incalza con l’innovazione tecno-digitale e crea un sofisticato meccanismo di valutazione per il controllo dell’efficienza e dell’ottimizzazione. Ha creato un esercito di valutatori e certificatori (agenzie rating) con l’apposito intento di tenere sotto controllo le potenzialità produttive e di mercato,
realizzando così una totalizzazione d’ordine e di sistema automatizzato (incrocio quasi perfetto tra potere e i regimi di verità del sapere softwerizzato!). La trasparenza sulle regole adottate, le conoscenze acquisite e disponibili, le attitudini relazionali e la collaborazione di rete (team work), le competenze (soft skills), gli uffici con-divisi (co-working), la digitalizzazione del lavoro e il lavoro da casa (smart working) la capacità di iniziativa, la decisionalità leadership e l’auto-con-divisa-organizzazione (indipendenza, interdipendenza e interazione tra differenze ma integrate) null’altro dicono che la possibilità di dominio totalizzante, nonostante le stesse divisioni d’aree e poteri dell’organizzazione capitalistica. La stessa intelligenza collettiva (così pianificata, e secondo codici semantici algoritmizzati), intesa alla visibilità co-operativa democratica perde però la sua iniziale portata d’uso rivoluzionaria.
Se così stanno le cose, allora occorre operare con astuzia antagonista e a diversi livelli (presa dei linguaggi, organizzazione, conflitti situati, proposte e comportamenti alternativi…). Un agire articolato e di rete che, come una nuova Internazionale, lavori con la dialettica dei movimenti sociali e le comuni azioni politiche; sì che, padroni dei linguaggi in uso, frammentino in maniera irreversibile i poteri e le connessioni inquinanti. Lingue e linguaggi non mancano, alterando, di mediare rapporti di poteri e rapporti di forze lì dove identità eterogenee e forme di vita hanno storie e cammini diversi.
Nel nuovo capitalismo “spirituale” e telematico, infatti, la nuova tecnologia, per esempio, non è più solo uno strumento, è soprattutto un nuovo linguaggio politicizzante. Un linguaggio tale (gli automatismi della digitalizzazione auto-algoritmica) che entra in competizione con i limiti della stessa intelligenza umana della specie, e tale da sopravanzarne sia le stesse capacità di calcolo e di ipotesi della mente umana storicamente evolutasi, che di sostituire la sua stessa potenza inventiva-combinatoria. In questa direzione, fra le altre cose, una propaganda deviante pubblicizza pure il fatto che la nuova tecnologia elettronica e telematica accelererebbe i processi di emancipazione e di liberazione: sarebbe iniziato il tempo della fine delle diseguaglianze sociali, delle ingiustizie e delle contraddizioni che angustiavano il vecchio mondo del contrattualismo capitalistico-borghese. Un autentico depistaggio organizzativo ed esecutivo (questi passaggi), e a misura delle sofisticate campagne pubblicitarie; quelle che connettono il lavoro informatizzato, personalizzato, creativo, flessibile (a casa o a distanza) alla prevalente contrattazione individualizzata tra imprese e lavoratori. Motivo per cui, in prima istanza, occorre sia una lucida analisi demistificante sia la ricomposizione di un agire collettivo che sappiano del presente e delle rivoluzioni scientifiche, delle tecniche e delle tecnologie non neutrali. Quelle che mondificano profondamente sia le reti lavorative che gli stili di vita individuali e sociali in termini di interdipendenze e connessioni geopolitiche allargate e aperte; e ciò all’interno delle conoscenze teoriche e dei risvolti pratici (etico-politici) che i modelli di ricerca e sperimentazione pongono ininterrottamente in essere davanti alle collettività. Collettività che non possono rimanere inerti, o ferme ai comportamenti disciplinati dal linguaggio dei blocchi del bene e del male dell’ideologia del passato, mentre si fanno raggirare dagli spot sulla morte delle ideologie, sulla neutralità delle nuove rivoluzioni della nanotecnologia elettronica e sullo sfruttamento della forza-lavoro come merce regolata dalla giuridificazione di comodo del mercato del lavoro. Spot, neutralità, “tempo reale” e cervello personale in sintonia magnetica (come capitale privato) – come i centri commerciali – sono parole d’ordine concentrazionarie (cocaina linguistica, disciplina e controllo più che promesse di felicità per tutti); utili per addomesticare il qualunque entro i recinti (reclusori a cielo aperto) delle volontà non reattive e decorate con i gusti dei consumi passivi. Occorre uscirne iniettando sane dosi di ordinaria e straordinaria follia contro queste procedure di verità dell’ortodossia in corso!
Il folle si crede altro da quello che è, un soggetto altro. Capace così, parlando tanto di economia cognitiva che della sua fonte creativa singolare, di sottrarsi all’uso della forza-lavoro come merce regolata dal mercato del lavoro deregolato; e, sulla scia marxiana (Roberto Ciccarelli, Forza lavoro- Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, 2018), distinguere così la stessa forza-lavoro del collettivo nella sua duplicità di forza/facoltà (“Arbeitskraft”) e capacità di lavoro (“Arbeitssvermögen”), quella che attualizza una potenza, mentre, produttore di procedure di verità politiche “altre”, potrebbe farsi nuovo Soggetto e soggettività di rottura rivoluzionaria. Farsi militante di una nuova verità comunista – come scrive Alain Badiou (Logiques des mondes; Secondo Manifesto per la filosofia) – incorporando pratiche e soggettivazioni non privato-proprietaristiche.
E intanto fra le potenzialità, la possibilità effettiva di non rimanere prigionieri della colonizzazione dell’identità capitalistica come l’unica forma essente e vivente senza alternative, o rivalità critica.
L’occultamento della differenza, al fine di confondere la forza-lavoro della rivoluzione digitale e post-fordista, infatti, è cosa gradita alle forze dominanti e scrupolosamente curata. La nuova produzione post-fordista, sebbene punti sugli aspetti emotivi, etici e culturali condivisi degli individui (scelte, decisioni, rischi, co-protagonismo della valorizzazione), lascia infatti che la ricchezza prodotta (nel senso più ampio) dal sistema rinnovato non cambi regime di espropriazione e sfruttamento, perché è la sola generatrice che alimenta la sua ricchezza attiva. La forza-lavoro, ininterrottamente, 24 ore su 24 ore, e a ritmi temporali che devono adeguarsi sempre più alle innovazioni e alle accelerazioni della tecnologia digitale (comando capitalistico imperante), produce infatti ricchezza espropriata di ineguale portata storica, mentre per gli oppressi e i volontari asserviti il Pil della situazione è nell’aumento delle loro diseguaglianze sociali, delle povertà e dei vari crimini umani e ambientali.
Certo non mancano le difficoltà nell’individuare verità e responsabilità individuali, collettive, istituzionali, nazionali e internazionali in questo nuovo universo del capitalismo digitale e delle cosiddette “multinazionali tascabili”. Tuttavia non ci si può esimere dal compito di conoscere le sofisticazioni del nuovo sistema neoliberista (anche quando parla della comune difesa dell’ambiente e della Terra come l’unico spazio vivibile), di conoscere i nomi e le sigle degli sfruttatori e di innescare azioni contro, alternative. Tale potrebbe essere la pratica dell’utilizzo delle nuove tecnologie contro la logica dei proprietaristi (anonima o meno sia l’identità) e il concetto stesso di “proprietà”, perché non c’è ri-generazione sociale e umana al di fuori di questa dimensione utopica quanto scientifica comunista. Ogni parte dello stare insieme, strumentale e non strumentale, materiale e spirituale, estetico ed etico-politico locale e globale, dovrà e potrà essere ri-formata sotto l’egida dell’“utilità” comune, e senz’altro uso (non scisso dall’arte, dalla poesia, dalla fantasia bollente…) che l’utile collettivo (salari, sicurezza sociale, educazione, creatività, investimenti, etc.); e ciò in vista delle capacità e dei bisogni di ciascuno e tutti, liberamente associati e sostenuti dalle innovazioni tecno-scientifiche e creative in itinere.
Il cammino verso il divenire-democrazia-con di tutte le parti in gioco (il plurale-molteplicità, fuori la logica universalizzante e totalizzante della sussunzione della valorizzazione proprietaria privatistica e individualistica del plusvalore del sistema-mondo post-fordista capitalistico o – direbbe Jacques Lacan – del discorso del padrone e capitalista) non sarebbe più una sperimentazione utopistica (l’utopia è forza propulsiva!), ma problematica e critica. Le difficoltà, gli ostacoli e i limiti non sono mai mancati e non mancano. Ostacoli e limiti, nel “discorso del capitalista” lacaniano, sono quelli che all’interno del vecchio discorso dell’equivalenza marxista-positivistica – l’equivalenza contrattuale lavoro/salario ricevuto – non permettevano di capire e aggirare l’impulso del “plus-godere” del padrone-capitalista connesso all’estrazione del plusvalore relativo; il desiderio e il godimento del capitalista cioè legato allo sfruttamento del plus-lavoro operaio non remunerato (sebbene fosse aumentata la produttività del lavoro e calato il valore delle merci) per estrarvi il plusvalore aggiunto, espropriarlo e privatizzarlo. Infatti è qui che nasce l’arcano della fattura del plusvalore e insieme – come diagnosticato da Marx – “la soluzione dell’enigma per cui il capitalista, intento unicamente alla produzione dei valori di scambio, cerca in continuazione di far scendere il valore di scambio delle merci” (Karl Marx, Il capitale, Libro primo, Capitolo decimo- La produzione del plusvalore relativo, a cura di Eugenio Sbardella, edizione integrale, Newton Compton Editori, Roma, 2013, p. 242). Ed è qui – scrive Jacques Lacan – che il godimento (“plus-de-jouir”) trova la “fucina dove si produce la specifica eccedenza che alimenta il discorso del capitalista. […] la compulsiva estrazione di plusvalore dalla forza-lavoro” (Fabio Vighi, L’enigma del plusvalore, in Crisi del valore – Lacan, Marx e il crepuscolo della società del lavoro, Mimesis, Milano, 2018, p. 34) e il desiderio incontenibile di appropriarsi della ricchezza prodotta (la quantità di lavoro non remunerato, il plus-valore-plus-godimento). Ma le difficoltà (procurate, o impreviste) nel mondo capitalista – già scriveva Bertolt Brecht –, non sono mai mancate. Ne aveva individuato cinque. Tra queste privilegiava la verità (Bertolt Brecht, Arte e politica, 1934-35, Cinque difficoltà per chi scrive la verità, in Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino, 1973, pp. 118 e ss). Ma, continuava, non era sufficiente scriverla. Se bisognava scriverla, «benché essa venga ovunque soffocata», occorreva (corsivo nostro) anche «l’accortezza di riconoscerla, benché venisse (corsivo nostro) ovunque travisata; l’arte di renderla maneggevole come un’arma; l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventasse (corsivo nostro) efficace; l’astuzia di divulgarla fra questi ultimi» (Ibid).
E se oggi le difficoltà non sono di certo diminuite, ma diventate più raffinate grazie al mondo della rete, della sua tecnologia elettronica (come linguaggio e connessioni e azioni funzionali), allora bisogna aggiornarsi. Aggiornarsi e inventare astuzie antagoniste e pratiche contro. Così accanto alle cinque verità brechtiane è necessario riflettere anche sulle contemporanee procedure di verità e sulle strategie e le tattiche di contrattacco de-centralizzato o del dis-ordine articolato delle informazioni e delle comunicazioni ortodosse. Dai netstrike, tanto per qualche esempio, all’hackeraggio, ai movimenti sociali e alle reti no-global, all’arte di strada, alle provocazioni performative e profanatorie …il dissenso e le realizzazioni sociali comunitarie non mancano di proposizione e azione dirompente. E sebbene l’astuzia non sia prerogativa di alcuni rispetto ad altri, è necessario tuttavia cogliere i cambiamenti di forma e adattarli all’azione del caso. Resistere e attaccare come un “covid” di nuova generazione, gentile e letale. Il pianto non serve ai morti. I morti aspettano che gli eredi non dimentichino il futuro e le promesse all’orizzonte di un senso immanente che, tra ironia e umorismi, deve rimanere sempre critico e radicale, non assoggettato! E mai dimenticare che la violenza, dove regnano conflitti di interessi e idealità, possa essere dismessa dal/i potere/i. Rozza o raffinata, la violenza del potere, non demorde. Se ieri abitava per esempio la fantasmagoria delle merci (il sapiente incantamento del bene divenuto merce), oggi invece l’astuzia distopica del neocapitalismo post-fordista ha modificato strategia. Le sue distopie (feticismo delle merci, seduzione delle merci, moda, design attraenti, progettazione 3D, asimmetria flessibile di potere tra capitalisti e lavoratori, ineguaglianza distributiva della ricchezza, ambienti lavorativi di lusso, o malsani e indecenti etc.) oggi non puntano più sulla “rappresentazione” (concreta) delle cose. Grazie alla potenza dei nuovi linguaggi tecnologici digitalizzati puntano invece alla fabbricazione della stessa rappresentazione. Una figurazione (pur astratta) dei bisogni, dei desideri, degli interessi, dei valori ma pervasiva e funzionale al dominio delle coscienze individuali e collettive. Un’astrazione stregonica, degna dell’omerica maga Circe, ma automatizzata e non disponibile nei suoi segreti costruttivi! La tecnica così è salita a rango di un nuovo e sofisticato linguaggio codificato ed elitario; e nuovo per quanto possa essere non è più solo uno strumento deideologizzato! E di questa astuzia che, fra l’altro punta anche sull’immediatezza estetizzante delle soddisfazioni individuali e sociali, la moltitudine (non più massa) deve aver contezza e forza di fuga “minore”; e ciò anche perché lo sviluppo capitalistico è diventato esteso sottosviluppo, discriminazioni razziali e crescita delle segregazioni e dei muri.

17/11/2020

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