Mi pare urgente fare un appello al non pianto, fare un elogio del cinema che non fa piangere. Ritornando sulla grandezza di Ejzenštejn e Dreyer, affermo a loro elogio che credo non facciano mai piangere. Quando vedo il finale di Paisà sono mille le cose che mi vengono in mente, ma sicuramente non mi viene da piangere. Mi fa pensare, mi fa capire, mi fa riflettere sulla realtà, sulle esperienze e sulla vita, ma non mi fa piangere. Che una puttana sentimentale possa piangere vedendo La passione di Giovanna d’Arco lo posso capire, ma siccome non sono una puttana sentimentale mi passa per la testa tutt’altro, e capisco che Godard è in quell’occasione di una perfidia straordinaria: mi pare sia un perfetto esempio del sublime cinismo di Godard, altro regista che non fa piangere. A suo merito, sfido chiunque a piangere guardando una qualsivoglia sequenza di Godard. Fa riflettere, fa pensare, fa ragionare, incita a ripensare la vita, la morte e il mondo. Far piangere è un crimine da reprimere, e non solo in ambito cinematografico.
Voglio chiarire la mia posizione. Quando protesto contro l’emotività, protesto contro una pratica che mi pare sia emersa: «questa cosa m’interessa, mi emoziona, mi coinvolge perché mi solleva tante cose che ho già vissuto e sperimentato». Invece quello che emoziona me in un film è ciò che mi rivela qualcosa che non mi richiama niente ma mi fa scoprire qualcosa che non conoscevo prima. Il suicidio del bambino di Germania anno zero di Rossellini non mi richiama niente alla mente, ma mi fa capire cosa può essere un suicidio, la morte di un ragazzino avvenuta in un modo che io non avrei mai immaginato. Non conta nulla in quel momento quello che so, ho visto, ho sperimentato: mi trovo davanti alla scoperta di un mondo, come la chiave che gira da sola nella toppa e mi spalanca un universo dove non riconosco qualcosa che già conoscevo. Non è un gioco di libera associazione di idee o di emozioni, è invece l’aprirsi conoscitivo e non emozionale verso nuove realtà. Se esiste un’emozione conoscitiva, questa è un’emozione intellettuale, come geografia dei possibili modi di fruire dello spettacolo cinematografico.
(dal Seminario Il montaggio nella cultura del Novecento, 2004; pubblicato in Un poeta al cinema, 2017)
(2/9/20)