Jameson e l’allegoria 2

Continua con questa seconda puntata la discussione sull’allegoria a partire dal libro di Fredric Jameson, Allegory and Ideology. La prima puntata ha riguardato soprattutto la distinzione tra la personificazione (che è semplificatrice e porta a immagini stereotipate) e l’allegoria a “quattro livelli”, che è, invece, secondo l’autore, polisensa e creativa.

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Interpretazione e produzione

Nella lunga storia dell’allegoria si sovrappongono due linee diverse, una creativa e l’altra interpretativa. La linea creativa è quella dell’allegorista che usa la fantasia per rappresentare un’idea attraverso un personaggio, un animale, un oggetto, costruendo un mondo “impossibile”, in buona misura irrealistico. La linea interpretativa è quella dell’esegesi: c’è un testo che non si addice più alla cultura attuale, ma che non può essere abbandonato, ecco allora che l’interpretazione allegorica lo adatta al nuovo contesto (così fecero i greci con Omero e i cristiani con l’Antico Testamento). Nella situazione moderna, in cui le allegorie sono per lo più immagini enigmatiche “senza chiave” esplicita (per esempio, i dipinti di Bosch o i racconti di Kafka), l’allegoria sembra tornare in mano all’interpretazione, quindi con alto rischio di arbitrarietà, cioè di vedere qualcosa che l’autore non aveva per niente in mente.

E potremmo citare qui, come esempio, anche l’Interpretazione dei sogni di Freud: i sogni sono una autonarrazione quotidiana carente e residuale, insignificante, che, attraverso la scoperta di un contenuto latente, viene eletta dalla psicoanalisi come via maestra verso l’inconscio. Detto ciò, i quattro livelli che  Jameson recupera e ristruttura sembrerebbero funzionare anche loro piuttosto dalla parte dell’interprete. In altre parole, sono un modello che potremmo applicare a qualsiasi testo, a prescindere dalle sue modalità: a prescindere da qualsiasi segnale di allegoria. Allora: in questo modo ogni testo può essere allegorizzato? In tal caso, l’allegoria non funzionerebbe più, come in Benjamin, da connotato di tendenza, tendenza allegorica vs. tendenza simbolica, un po’ come avanguardia vs. tradizione (non a caso, Lukács sostenne che Benjamin diceva “allegoria”, ma pensava “avanguardia”…). Se prevale la prospettiva dell’interprete, cade in non cale l’intenzionalità allegorica. Per paradosso, proprio la personificazione tanto vituperata è quella che non nasconde l’intenzione dell’autore (quando Baudelaire inserisce l’Angoscia e la Speranza, nel quarto Spleen, siamo certi che ha costruito volontariamente delle allegorie); mentre i “quattro sensi” possono farne a meno, tanto più se diventa decisivo, “in ultima istanza”, il livello finale, il generico storico-sociale, che potrebbe diventare semplicemente una inclusione “sociologica” (deterministica: tale l’epoca, tale il testo), oppure, altrettanto semplicemente, una attualizzazione (ciò che il testo dice a noi, oggi). È quello che è avvenuto quando Jameson, attorno alla metà degli anni Ottanta, ha preso in mano la bandiera del postmoderno: data la nuova situazione postmodernità (che equivale, per Jameson alla modernità globalizzata e senza alternative) ogni testo che in essa si producesse era dichiarato per forza di cose postmoderno.
L’impostazione però cambia quando il nostro autore affronta testi particolari. Ad esempio, a proposito di Brecht, nel suo Brecht e il metodo (1998; trad. Cronopio, 2008), Jameson arriva ad enunciare una definizione di allegoria con caratteristiche testuali abbastanza precise:

L’allegoria consiste nel sottrarre a una data rappresentazione l’autosufficienza del significato. Questa eliminazione può essere contrassegnata da una radicale insufficienza della rappresentazione stessa: lacune, simboli enigmatici, e così via; ma più spesso, e soprattutto in tempi moderni, l’allegoria assume la forma di un piccolo cuneo o di un’apertura posti accanto alla rappresentazione, che può continuare a significare se stessa e a sembrare coerente.

Per riconoscere l’allegoria avremmo allora bisogno non di un testo qualunque, ma di un testo problematico, in sé “carente”, non vidimato da verosimiglianza, non coerente (quali sono per l’appunto i sogni e i testi d’avanguardia). Jameson parla di una «breccia» nella coesione dei significati, di «una ferita nel testo»; insomma di una incompletezza che richiede l’intervento dell’interpretazione allegorica ‒ mi è occorso di notare che la letteratura fantastica, in quanto priva di referente “reale”, si presta perfettamente a essere inquadrata dall’allegoria.
Ora, in Allegory and Ideology, sotto la sorveglianza del discorso teorico si svolgono varie letture, sempre stimolanti: da Dante (su cui ci sarà modo di tornare nell’anno dantesco assai prossimo), a Spenser (The Faerie Queene), all’Amleto, al Faust di Goethe, per arrivare alla contemporaneità (nel capitolo Literary: Allegoresis in Postmodernity). In queste analisi, sembra che l’ipotesi “quadripartita” dell’allegoria, da schema interpretativo si trasformi in un assetto plurale e dinamico dell’organizzazione testuale; non tanto e non solo con il riscontro di diversi strati (che non si negano a nessuno, volendoli trovare), ma soprattutto con il rinvenimento delle relazioni tra essi, convergenze o divergenze che siano, quei fenomeni che Jameson colloca sotto il segno della trasversalità.
In questo senso, forse il saggio più eloquente è proprio quello che esce dal campo della letteratura per occuparsi di un’opera musicale, la Sesta Sinfonia di Mahler. Proprio perché si entra in un problema spinoso (come è possibile un’allegoria in musica?) e non c’è alcun paracadute linguistico, l’allegoresi non può che derivare dall’organizzazione formale e dal rapporto con le modalità codificate. E qui, appunto, l’arbitrio interpretativo cede al rinvenimento di precise modalità procedurali, potremmo dire, di un certo tipo di dispositivo. Jameson vi afferma questo principio metodologico:

My working premise (here and elsewhere) has always been to search for the internal divisions of a work ‒ its gaps, its multiple tensions, its contradictions ‒ rather than for the rather obvious unity it seeks, in the name of whatever genre, to display. Obviously the allegorical genre ­when allegory has taken a generic form, as in the three canonical works considered in these chapters ‒ will display its external unity in the form of separation, juxtaposition, a well-nigh spatial division; and it is therefore for the internal conflicts and contradictions of those divisions that we must search today. 

Un suo decostruzionismo, dunque, nella ricerca degli scompensi e delle contraddizioni. Non si tratta cioè di inserire il testo in maniera statica nei quattro livelli gerarchicamente ordinati dal più particolare al più generale, ma di cogliere gli spostamenti e gli squilibri nella stessa gerarchia e eventualmente mettere in questione il riempimento dei livelli. Ad esempio, il problema può riguardare, precisamente, l’attribuzione dei livelli più bassi, perfino il livello letterale, perché identificare il profilo più immediato della rappresentazione non è mai così scontato come si potrebbe pensare.

(segue)

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