Palladini: racconto che fa testo

Non ho particolare simpatia per il genere racconto, né riesco a separarlo dalla nozione più complessiva di “narrativa”, se non per la minore ampiezza. Inoltre, mi pare che il termine stesso “racconto”, esportabile ‒ a rigor di logica e anche in taluni casi effettivamente esportato ‒ verso una generica categoria del “raccontare”, anche al di là dello specifico letterario (si racconta in tante circostanze, dalla conversazione quotidiana alla TV, ai verbali del commissariato), finisca per partecipare a quella ontologia-ideologia della “narrazione” che oggi imperversa a supplire la crisi delle identità.
Devo riconoscere che la raccolta di racconti di Marco Palladini, Nomi veri falsi (Edizioni Empiria, 2019, con la copertina di Bruno Conte), ha superato queste remore. Possiede, a mio parere, delle caratteristiche positive che proverò a spiegare in forma di elenco.

1) Per prima cosa, nel libro di Palladini colpisce la varietà delle soluzioni. È come se il libro, per venti volte quanti sono i brani che vi sono raccolti, compia un nuovo lancio di dadi e trovi un diverso assetto; che non riguarda tanto la persona verbale (qui Palladini preferisce la terza, per costruirsi un personaggio-sonda che gli consenta una certa distanza), quanto la costruzione della situazione, dell’ambiente, del linguaggio (quello che Bachtin chiama cronotopo). Molte tipologie di racconto, compresa quella di Non posso dimenticare, che non è propriamente un racconto ma una serie di spunti narrativi che si succedono uno dopo l’altro secondo la tecnica dell’elencazione, risultando alla fine un testo fondamentalmente ibrido.

2) C’è in filigrana ed emerge in vari luoghi una problematica politica, che riguarda la delusione dell’utopia, in qualche modo una riflessione della parabola di una intera generazione intellettuale, partita per cambiare il mondo e finita nella retropia («la retropia come succedaneo dell’utopia sembra persino più esiziale della distopia»). Così dice Accio a Teodosia (in Accio e Teodosia): «lo vedi, ci abbiamo provato, non è andata, ma almeno ci abbiamo provato ed è questo quello che conta». Come in quel caso, anche in Oltre il silenzio e in Il pane quotidiano, il tema della “sconfitta” è presentato attraverso una discussione, segno che comunque ha bisogno ancora una volta di essere elaborato soppesando le tesi e le antitesi, in una parola in una situazione dialogica,. E poi, forse, per Palladini ‒ data la sua fondamentale “base” anarchica ‒ più che di sconfittismo bisognerebbe parlare di “disappartenenza”, il termine che compare in Diario confuso (e contuso) a contrassegnare l’essere «un uomo irreconciliato e irreconciliabile».

3) Come dicevo, il ventaglio delle opzioni è molto ampio, va dal fantastico-onirico al «realismo rozzo e sozzo», cioè il versante del «sottosuolo», i territori notturni del degrado metropolitano («per parecchio tempo ho scorrazzato nel sottosuolo romanota e nella periferia gentrificata e degradata e ne ho viste di ogni…»). L’istanza corporale o, per meglio dire, l’impazzimento del desiderio ai margini del paradiso consumista è descritto dal sismografo della scrittura in tutta la sua ambiguità. Così nel testo La vita intima di Ale e Benny secondo Virginia, a occhio e croce il più lungo di tutto il libro, l’eros è illustrato a dismisura nella sua meccanicità e nella sua inesauribile combinatoria. Eppure, c’è un problema: si è persa quella che era, negli anni Sessanta-Settanta, la carica liberatoria della trasgressione e l’autore sembra guardare ora a quella materia “bollente” con un certo distacco ironico, quando non con un risvolto mortuario, comunque con l’evidenziazione di un vuoto e di una perdita. Qui il finale di Animalitudine:

Scivolano le prime ombre della sera e Riggiano decide di andare a gettarsi nella vita notturna della città dove vive. Verso mezzanotte è intrippato di alcool e continua a spostarsi da un locale all’altro. Una potente scia musicale lo sospinge. Ritmiche elettroniche, trip hop, dubstep, alternative hip hop, nu jazz, soul e funk a manetta, fiumi di drum&bass, ondate di torrido reggae. I corpi si muovono, vibrano, si scuotono, flirtano, si strusciano, si storcono e saltano. Ma anche qui, non può fare a meno di osservare, sono le femmine so­vreccitate, minigonnate, quasi desnude sui tacchi a spillo, e trucca­tissime che comandano. Sono loro che decidono con chi e quando andare sniffare e a copulare nelle toilette. Lui segue l’onda del ballo, si agita a sproposito, guarda intontito, poi collassa su un divanetto in similpelle viola e crolla incosciente sul proprio vuoto d’anima.

4) Correlata ai flussi del desiderio c’è la conseguente crisi dell’identità: la pluralità dell’io, evidenziata, per così dire, matematicamente, nel testo intitolato L’Io 0+0+0, ma attiva anche altrove. Proprio in chiusura (in Tra un’ora o tra dieci anni… lo sai) troviamo affermato che «l’individuo, secondo insegnava Deleuze, è una invenzione, una costruzione surrettizia, una narrazione prescrittibile, in sé non esiste». Sarà ben per questo che il personaggio di Palladini non vuole essere “a tutto tondo” (manca decisamente di biografia) e si trasforma piuttosto in un catalizzatore atto a esplorare la disgregazione generale.

5) E infatti, spesso e volentieri, protagonista diventa il linguaggio. Un linguaggio che si scatena al pari della scena cui si applica, sui vari versanti possibili del neotecnologico o del gergale. Un linguaggio che parte per la tangente, non alieno da risvolti ironico-satirici come in questo caso dove il lavoro di superlativi e diminutivi sfocia poi nella imitazione dei neologismi avanguardistici (con parodia degli epigoni, direi):

In un caffeuccio del villaggetto letterario, sgrammaticati scrittorelli leggevano testi bischerrimi, palesemente apolidi nella lingua d’uso e si intestardivano a fare i filologi delle cause perse, nonché sbagliate. Un criticuzzo sosteneva che ormai il senso della storia è sfumato nel dissenso al nonsenso globale e la platea applaudiva com­piatta. Pure se nessuno, neppure il critichetto, aveva la più pallida idea di cosa fare e di dove andare a parare. Un altro bel tomo col pa­pillon, presentatosi come il joycianommo, ripeté per cinque minuti la frase: “Che cozzo ha fotto!”, rimeritandosi gli sfottò di fottutissimi chiacchieroni vitalisti. Però il libridinoso, esulceroso prudenziano scriptor in res gestae tentò il rimorchio di una molto formosa af­fluvionalescente studentessa, quinta misura di reggiseno, che invece snobbava il senescente mecco finneganagliesco anzichenò…

5bis) Eppure, la stessa scrittura palladiniana è lì che erompe. I giochi di parole, le rime interne; fino all’ossessione (e sempre sul filo della riscrittura):

Lo sai alla pari di quel tuo fratello, quasi gemello, che ha scritto un contro-inno tricolore che recita: va depensiero italico sull’ali dorate, sulle macchine truccate, sulle discariche avvelenate, sulle fabbriche abbandonate, sulle spiagge affollate, sulle periferie ur­bane derubate, sulle colline dalla speculazione edilizia massacrate, sulle campagne disseccate, sulle prostitute afro camitiche schiaviz­zate, sulle bambine abusate, sulle chiese diroccate, sulle antiche valli bruciate. Va depensiero, va, va affankulo e lasciaci in pace!

Che la narrativa, per salvarsi dal banale (del racconto sceneggiatura) debba chiamare in soccorso le risorse della poesia?

6) Ora, se ‒ là dove il racconto si fa testo ‒ l’epicentro è linguistico, allora, la trama passa in secondo piano («c’è qualcosa dentro di me che si ribella alla dittatura del plot»). Diventa un semplice supporto all’impennarsi della scrittura; in una composizione disordinata che, non a caso, viene apparentata al “brogliaccio” ‒ all’inizio di Pêle-Mêle: «quello che sta appuntando gli sembra per ora un brogliaccio senza capo né coda».

7) Questi racconti contengono in sé l’impossibilità del racconto fin il primo brano, dedicato a Gianni Toti (AutoRacconto) e perciò tendente alla «adamantina vuotità dell’irracconto»; per terminare circolarmente sulla «impossibilità di qualsivoglia narrazione lineare». La forma migliore sarà quella di un testo elencativo (vedi soprattutto Non posso dimenticare e Tra un’ora o tra dieci anni… lo sai, entrambi scanditi da una frase di apertura che si ripete di paragrafo in paragrafo). Ovvero pulsione ritmica tendente all’accumulo o sommatoria di spunti narrativi che nascono e muoiono all’istante.
Poi c’è il problema dei nomi, cui allude il titolo. I nomi sono nomi veri (spesso vi si riconoscono conoscenti), ma falsi perché applicati a personaggi inventati. Cosa vuol dirci l’autore con questo? Forse vuole dirci che le identità sono immaginarie e le nostre (i nomi veri) non meno dei nomi falsi dei personaggi di finzione; e che allora, per incrinare lo schermo, c’è bisogno di una finzione eccedente.

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