Lubrano, il poeta in dimissione

Una quarantina di anni fa, Edoardo Sanguineti, in un convegno sulla critica di quelli di una volta, propose la dimissione del critico, versione rovesciata della “missione del dotto” di Fichte. Oggi, Carmine Lubrano, che con Sanguineti ha collaborato in manifestazioni e libri, dichiara una analoga dimissione, questa volta dalla poesia: «Basta! Vado via dalla poesia!» esplode proprio in apertura del suo libro di versi, or ora in uscita per l’editore Fabio D’Ambrosio.
E non gli si può dare torto. Tale è l’andazzo al ribasso dei verseggiatori attuali che occorre stare bene attenti a non essere equivocati e scambiati con quelli, che sotto l’ombrello generico del termine poesia – “aura fritta”, ho scritto su questo blog – proliferano e infestano, ormai diffondendo un errato senso comune e cancellando accuratamente le tracce dei radicalismi novecenteschi. Provate a guardarvi la premiazione dello Strega-Poesia e poi mi direte. Tra spettacolarità d’accatto, melensaggini ufficiali e ammiccamenti vari, circolano le solite presunzioni emotive, vaghe nostalgie, stanchi patetismi in toni ispirati privi di sostanza. Cosa resta da fare allora ai poeti se non smarcarsi e dire chiaro e tondo che con quella roba lì non si ha nulla a che fare?

Si dirà che poi il nostro Lubrano il suo libro di poesia lo scrive e lo pubblica. E per giunta con un titolo, Carminecanta, che sembrerebbe alludere a una disposizione lirica. Quindi il testo dimissionario posto in apertura potrebbe considerarsi come composto alla fine, tanto più che il libro comprende anche testi scritti in passato e allora configura una sorta di riassunto del percorso dell’autore. Epperò è bene guardare con più attenzione.
Il libro è costituito infatti, com’è solito di Lubrano, da un testo continuo nel quale è difficile distinguere i singoli brani, titoli e estratti vengono coinvolti per diritto o per rovescio insieme alle immagini in collage, incolonnati che siano in versi o spaziati o messi in prosa che siano. Questa è una poesia di flusso che a buon diritto si definisce “letania rap”. Il canto, dunque, insieme alla danza che spesso l’accompagna, non devono essere intesi come elevazione evocativa, ma precisamente nel senso del trascinamento ritmico, che coinvortica in sé i frammenti e le porzioni di metrica («lo strummolo che rucula rudda rupizza / ruzzula ruzzula s’impanna se ’nchiumma»), si slancia in onde, s’interrompe e riparte, brulica di paronomasie (significativa quella tra “sasso” e “sesso”), allitterazioni e rime: «in questa stanza dove il gesto è già opulenza / gravida tra il salto del fosso l’asso ed il sasso / il sesso in differita si sa / è altra cosa / non osa si sa / usa in difesa / il cosare silenzioso / e posa sossovra il carnoso / il lento sudore tremante / saziando lenzola (ahi cazzarola)», e via via avanti tutta così.
La spinta propulsiva del ritmo accoglie e produce una serie di contaminazioni: tra il dialetto e la lingua letteraria (del barocco antenato Giacomo), l’avanguardia e il beat, Che Guevara e Patty Pravo, e soprattutto – come è tipico di Lubrano – la coinvolgente materia erotica. Le «stroppole d’ammore» di una poesia amorosa (ovvero «amor osa»), tuttavia in aperta contesa della voga di Merini e merinisti. Perché non nasce dall’alto del sublime, ma dal basso corporeo di quello che si potrebbe chiamare il “sensibile” in tutte le sue forme, nobili e meno nobili. «bisogna sporcarsi le mani», scrive l’autore; ed infatti troviamo una poesia degli spurghi, delle emissioni, in buona sostanza dell’impuro o, se si vuole un altro termine, dell’impresentabile. «Sonetti scostumati». Dove non a caso sono identificati vermi e versi in base all’omofonia del termine francese “vers”: «e vers e vers vermi e versi dalla franciosa lengua / le salive dell’inchiostro nei guizzi e nel vento».
Se nostalgia c’è nella poesia di Lubrano è quella della rivoluzione culturale degli anni Sessanta del secolo scorso. Quelle aperture liberatorie oggi incontrano da più parti arcigne chiusure. «Il tempo è ansato», scrive qui Lubrano, e, compreso l’eros, «tutto ormai è una insegna / scolorita / che ha perso la sua iniziale allegria»; e più avanti dice «che i nostri paradisi infernali / sono finiti nel letame». La disdetta della poesia deriva quindi dal fatto che anch’essa è stata presa nelle mutazioni postmoderne (o catamoderne che siano):

c’era una volta una cosa chiamata poesia
rito di lessici e carogne e mucose veseve
c’erano parole rugose e c’era una “cosa”
che osava la delizia infinita del sesso il peccato
di una lingua oscena ortodossa e blasfema

Mentre oggi quella poesia «cosa altra altra cosa» è ridotta a partica privata e consolatoria. A guardar bene la dimissione dalla poesia non è solo nelle pagine iniziali, ma è un filo rosso che attraversa l’intera raccolta con i contraccolpi del suo «basta, vado via». Ma indubbiamente la polemica più aspra è in apertura e vale la pena di concludere proprio con uno i suoi passi “disgiuntivi”:

(…) ora che tutta l’arte è ’ngenucchiata
tra lo fetore putrescente di guaste canzonette deliranti
ora che hanno vinto loro li illittarati suonatori
di zampogne sterilizzate
e che hanno globalizzato anche la taranta e la tarantella
lu purpe alla pignata la pitta di patate
il triangolo (maledetto) : De Angelis-Merini-Arminio
ha edificato macerie su macerie creando proseliti
a dismisura e con paroline ulcerate e molli come cimici
così prive di sesso votate al decesso in caduta libera
depresse continuamente sottoposte alla rima fecale
e tra le lagne ed i flussi mestruali doloranti di sorelle
zitelle
e tra trip trap spoken rap poetry slam e multimedialità
con qualcuno che tenta la “novità” intrecciando fili
pagliuzze e sbadigli
IN QUESTO LETAMAIO E DOVE SALVINI E MELONI
ED IL PONTE SULLO STRETTO … E LA STRISCIA DI GAZA
… ED ANCORA SI MUORE
si scrivono sonetti e madrigali (e tutti felici e contenti)
e si canticchia nonostante il malaffare …
È MUNNEZZA PURA (ti prego non chiamarla poesia)

E CON QUESTO LIBRO DICO BASTA E VADO VIA

28/01/2024

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