“Evviva la dialettica!”

Da qualche tempo sono solito dire che su Brecht dovremmo essere tutti d’accordo. Certo, mi rendo conto, non proprio tutti tutti; e forse dovrei calare più o meno alla metà dei noi. Ma quello che intendo è: sia contenutisti che formalisti. Infatti il nostro vecchio Bertolt viene ben incontro a quelli che vogliono un impegno a favore degli svantaggiati, degli ultimi, degli oppressi; nello stesso tempo, però, offre agli apprezzatori dello specifico artistico-letterario da mettere sotto i denti notevoli sottigliezze procedurali (lo straniamento) e una acuta intelligenza nei riguardi del modo di espressione. Non a caso è ancora citatissimo nei discorsi dei sofisticati big della teoria internazionale (Badiou, Žižek, Rancière, quest’ultimo magari con qualche riserva) e Jameson gli ha dedicato una monografia in cui gli riconosce in buona sostanza il ruolo speciale di interpretare una “modernità diversa”, addirittura «l’unica forma legittima dell’innovazione modernista in quanto tale».
A proposito, dunque, tornano in libreria i Dialoghi di profughi per merito dell’editrice L’orma, in una nuova traduzione completa e con l’aggiunta di inediti. Nei Dialoghi troviamo un Brecht al meglio, come attesta l’ammirazione per questo libretto da parte di Sanguineti (citato nel retro della copertina) presso di noi e di Juan Carlos Rodríguez in Spagna. Per paradosso, Brecht qui è al meglio proprio perché al peggio, visto che lo scrive quando si trova esule nel Nordeuropa sotto l’avanzata delle truppe naziste attorno al 1940.

Al tavolo di un locale di Helsinki si incontrano e fraternizzano due tedeschi fuoriusciti, Ziffel e Kalle, un intellettuale e un operaio. Il pensiero e la necessità stringono alleanza e il risultato è straordinario: invece di elevare lamentele e ricordi nostalgici, i profughi brechtiani sono capaci di ridere della tragedia anche nell’ora più buia, quando pare non esserci via di scampo (fuggire ancora più a Nord? C’è rimasto solo il polo…). A dimostrazione del fatto che l’umorismo è sempre un po’ tinto di nero (come ben sapeva Freud) il loro ping-pong verbale fa a meno della serietà («la cosa più seria che sia mai esistita è Hitler con la sua cricca») e sceglie di volta in volta punti di vista originali («Mi lasci essere originale altrimenti sarei solo stupido») in uno scoppiettare di memorabili battute. Ripassiamone qualcuna:
– sull’ordine: «dove niente sta al posto giusto lì c’è il disordine. Dove al posto giusto non c’è niente, lì c’è l’ordine»;
– la soluzione del problema della popolazione civile che intralcia le manovre militari: «paracadutare la propria popolazione civile dietro le linee del fronte, in territorio nemico»;
– sulla bontà dell’uomo: «respirai di sollievo quando un critico scrisse: “L’uomo è buono, il vitello saporito”»;
– sul patriottismo: «Mi è sempre sembrato strano che si debba amare di più proprio il Paese dove si pagano le tasse»;
– sulle radici: «sono convinto che le uniche creature che le radici le hanno davvero, gli alberi, preferirebbero tanto farne a meno, così potrebbero anche loro prendere il volo con l’aeroplano»;
– sul capitalismo: «I capitalisti non sono dei semplici rapinatori, non foss’altro perché i rapinatori non sono capitalisti»;
– sulla razza: «L’idea della razza è il tentativo di un piccoloborghese di diventare nobile»;
– sull’educazione è valida la lezione del maestro che fa sedere gli alunni nella classe in cui c’è un banco in meno e redarguisce proprio lo studente rimasto in piedi, così impara a comportarsi nella società («non è ammesso aver scalogna»).
Questa ricerca sistematica del paradosso è la maschera che Brecht attribuisce alla dialettica. «Evviva la dialettica!» esclamano i personaggi alla fine del capitolo che ne tratta esplicitamente, sia pure attraverso il termine “umorismo”. Addirittura una rilettura di Hegel come umorista riprende e vivacizza le risorse della “scienza della logica”. Leggiamo che Hegel

Aveva un tale senso dell’umorismo che per esempio non poteva assolutamente immaginarsi una cosa come l’ordine senza il disordine. (…) Negava che uno sia uguale a uno, non solo in quanto tutto ciò che esiste si tramuta continuamente, senza sosta, in qualche altra cosa, e precisamente nel suo contrario, ma anche perché non vi è nulla che sia identico a se stesso. Come ogni umorista, era particolarmente interessato al modo in cui si trasformano le cose. (…) In lui i concetti si dondolavano sempre sulla sedia, il che in principio fa un’impressione molto rassicurante, finché poi la sedia si rovescia. Il suo libro La grande logica lo lessi una volta che avevo i reumatismi e non potevo muovermi. È una delle più grandi opere umoristiche della letteratura mondiale. Tratta della maniera di vivere dei concetti, di queste esistenze scivolose, instabili e irresponsabili; di come s’insultano l’un l’altro e fanno a coltellate e poi si siedono a tavola assieme per la cena, come non fosse successo niente. Essi compaiono, per così dire, a coppie, ciascuno sposato col suo contrario, e le loro faccende le sbrigano sempre in coppia: firmano contratti in coppia, fanno processi in coppia, organizzano irruzioni e scassi in coppia, scrivono libri e fanno dichiarazioni giurate in coppia, e cioè come coppia completamente in disaccordo su tutto. Quel che l’ordine afferma lo confuta subito, possibilmente nello stesso momento, il disordine, suo compagno inseparabile. Non possono vivere l’uno senza l’altro, né l’uno assieme all’altro.

Gli stessi profughi brechtiani sono fin da subito impegnati in ribaltamenti a sorpresa (del resto «la miglior scuola di dialettica è l’emigrazione»). Si parte dal negativo che tocca ai consumi quotidiani: la «birra non è birra» e, guarda un po’, «neanche questi sigari sono sigari». In compenso, per fortuna, capita che «anche il caffè non sia caffè». Come sarebbe «una circostanza fortunata?». «Nel senso – dice il personaggio implicato – che si ristabilisce l’equilibrio», ovvero tutto così fila liscio ed evidentemente una coerenza di negazioni è meglio di una discordanza. C’è un però: il passaporto. Invece «il passaporto deve necessariamente essere un passaporto» in quell’epoca di transfughi («Mi chiedo solo perché proprio adesso ci tengano tanto a contare e registrare le persone, come se qualcuno potesse sfuggirgli di mano»). Allora che ne è dell’uomo? È «solo il meccanico latore di un passaporto»? Ma di nuovo il ragionamento si ribalta:

Eppure, da un certo punto di vista, si potrebbe sostenere che l’essere umano è necessario al passaporto. Il protagonista è il passaporto, tanto di cappello, ma non avrebbe senso privato del suo essere umano, o quanto meno non sarebbe completo. È come il chirurgo: gli serve il malato per poter operare, non è autosufficiente, è solo una mezza cosa, pur con tutti i suoi po’ po’ di studi.

E la materia umana rivendica il suo ruolo di base insopprimibile.
Insomma, qui nei Dialoghi abbiamo un Brecht privo del teatro che si mette, in mancanza di meglio e per forza di cose, a teatralizzare la scrittura. E il testo che ne deriva è tutt’altro che minore, sebbene abbia spesso avuto solo un cantuccio rispetto alla prevalenza della drammaturgia. La sua attualità, poi, non è solo tematica: effettivamente, rispetto alla odierna profusione di profughi, quelli brechtiani, dirà qualcuno, sono piuttosto diversi … Il fatto è che l’umorismo e il paradosso non sono soltanto nel carattere dei danesi (dai quali prende spunto il citato capitolo hegeliano), sono intrinseci al capitalismo come tale, oggi più che mai contraddittorio e schizofrenico, tra alta tecnologia e medioevo di ritorno, tra obblighi economici e tirate moralistiche, ecc. Si noti che per Brecht il nazismo è esattamente una contraddizione del capitalismo: «Perlomeno Hitler è ben consapevole di non poter avere il capitalismo senza la guerra. Mentre i liberali non lo sanno». Così dice Ziffel; e Kalle di rimando: «Credono ancora di poter avere un macellaio, ma di potergli proibire per legge il macellare».
(A proposito di distanziamento: Hitler raramente è chiamato con il suo nome, come nel passo qui sopra; di solito è il “Comediavolosichiama”).
Secondo Terry Eagleton, Brecht è una figura particolare nella sinistra del suo tempo, è il “clown marxista». E qui è lui stesso ad affermarlo, quando fa dire a uno dei personaggi: «Una buona causa la si può sempre esporre anche in modo divertente». Teniamocelo per detto di fronte a tanta letteratura impegnata di oggi volta alla perorazione e alla compassione, finendo dalle parti del Papa. Dal canto suo Sanguineti, nel passo riportato sul retro del libro, esorta a «leggersi i Dialoghi di profughi una volta l’anno, al minimo». Con la nuova edizione adesso è possibile, diamoci sotto.

28/09/2023

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