È davvero arduo orientarsi nel panorama della narrativa odierna. Anche a volersi limitare soltanto alla produzione nella nostra lingua, nessuno è in grado di possedere la conoscenza completa dei romanzi sfornati in continuazione ed è giocoforza attenersi a percorsi specifici o a sondaggi-campione. Molto difficile è diventato anche formulare dei circostanziati giudizi, dato che è ormai invalso un criterio di gusto vago e opinabile, in assenza di dibattito teorico e di supporti metodologici. Rari sono anche i casi di critici che guardano al di là del cerchio di notorietà creato ad arte dall’industria editoriale.
In questo quadro, tanto più bisogna salutare con soddisfazione il libro di Luigi Matt, Narratori italiani del Duemila, edito da Meltemi. Un libro indubbiamente utile per quelli come me che esitano a leggere la narrativa appena uscita per evitare di sottostare ai soffietti pubblicitari dei successi annunciati e così finiscono per non leggerla proprio, perché scompare dai radar non appena finita la veloce stagione delle vendite. Non solo utile, ma questo è un libro al contempo coraggioso, in quanto non si esime dal presentare opinioni valutative, anche magari controcorrente.
Nella prima parte, che precede il confronto con i testi, Matt enuncia giustamente la sua posizione critica. Ecco il punto, sul quale concordo in pieno: critica significa valutazione, ma la valutazione va adeguatamente motivata, senza fermarsi alle affermazioni secche, proprie sia degli ipse dixit dei presunti detentori del gusto che della diffusa pratica spolliciante dei “mi piace/non mi piace”. Ma motivare come? L’indicazione di Matt, confermata poi nel lavoro concreto, è quella della “stilistica militante” fondata sull’analisi testuale: «L’unico sistema valido per provare a dire qualcosa di sensato, in campo letterario, rimane l’analisi dei testi».
La ricerca ha indubbiamente un risvolto generazionale: si tratta di sdoganare una fascia di autori giovani o meno giovani che rischiano di rimanere confusi nel rigetto della bassa qualità della letteratura di consumo o di cassetta (incluso chi qui scrive, che parla volentieri di postletteratura). Giustamente, Matt invita a non fare di ogni erba un fascio, a non respingere in blocco, che sarebbe gesto ugualmente miope della accettazione indiscriminata. Una critica non pregiudizievole è chiamata a distinguere: «il principale limite – scrive Matt – di tante prese di posizione sulla letteratura è la tendenza ai giudizi sommari, che della critica rappresentano, né più né meno, la negazione»; e ancora, più avanti: «Dalla rassegna qui proposta, mi pare emerga con molta chiarezza il fatto che l’idea di un’omogeneizzazione stilistica proposta da molti critici – per solito senza il conforto di alcun esempio concreto – come caratteristica primaria della narrativa di oggi non regga alla verifica dei testi».
Non che l’autore non si renda conto della standardizzazione verso il basso provocata dalle politiche editoriali, con il contorno di effimeri capolavori strombazzati e di falsi valori propalati. Ecco:
Va preso atto del progressivo aumento di libri in cui è evidente la totale indifferenza per le ragioni della forma, ciò che del resto è in linea con lo spirito dei tempi: è evidente il diffondersi di un atteggiamento di grande sospetto verso qualsiasi ricorso a un minimo di complessità di pensiero e di espressione, che viene bollata come attitudine da intellettuali (accusa considerata tra le più gravi). Com’è naturale, la mancanza di cura stilistica è particolarmente evidente nei romanzi di consumo.
E però:
Non deve sembrare inutile dedicare attenzione a tali sottoprodotti: ignorarli rischia di falsare l’immagine complessiva della galassia narrativa. Infatti, se la paraletteratura è sempre esistita, oggi ha preso uno spazio fino a poco tempo fa inimmaginabile, risultando nettamente maggioritaria dal punto di vista commerciale e anche bene accetta a molta parte della critica giornalistica.
Testo dopo testo, Matt procede a stigmatizzare i limiti non solo dei generi realistico-sentimentali, ma anche del romanzo storico e perfino della letteratura impegnata che propone contenuti tratti dalla realtà più scottante, come pure della cosiddetta non-fiction, là dove l’urgenza dell’attualità sembra sufficiente a giustificare qualunque imprecisione e sciatteria («I risultati sono spesso sconfortanti: il livello di cura formale della maggior parte della non-fiction italiana rimane molto al di sotto di ciò che sarebbe naturale aspettarsi»). E una buona requisitoria mette a posto anche assi assai quotati come Maggiani e Scurati… Più in generale, Matt ha in sospetto quella che, con formula intelligente, egli chiama la “scrittura dell’enfasi”, puntata sul facile effetto di esagerare i toni, usando le tinte forti, gonfiando le gote della sentenziosità, con «banalità travestite da illuminanti apoftegmi» ed esiti sostanzialmente consolatori.
Certo, una volta abbandonate le scorciatoie del giudizio estetico ex cathedra e scelta la via dello stile, non tutto è risolto, nascono nuovi problemi. Infatti: quale stile è giusto? E inoltre: se per la maggior parte la narrativa d’oggi è senza stile, in quanto l’editing la depura da qualsivoglia “deviazione dalla norma”, quale presa può avere la stilcritica? Matt, con le sue letture caparbie e impegnative, ci dimostra che campo ne ha, contro tutte le apparenze. Intanto, è possibile rilevare ancora oggi una direzione verso il parlato, che si situa in direzione di soggetti devianti; dalla parte opposta alle scritture che si avvalgono di presunte pregevolezze letterario-poetiche. Oppure, si incontrano frequenti impronte dialettali: insomma, malgrado la prevalenza di una mediocre medietà, rimane viva «la gloriosa tradizione dell’espressivismo di matrice plurilinguista».
La “stilistica militante” di Luigi Matt non riguarda solo le particolarità lessicali, che pure vengono spesso rilevate, ma intende anche le funzioni del “grado zero” (lo stile senza stile), che qui è chiamato anche “stile semplice”. «Lo stile semplice, se usato al meglio, ha infinite potenzialità»; e più avanti:
l’impassibilità di un lessico privo di scarti dalla media, il rifiuto di ogni tentazione figurale sono frutto di precise scelte, che si rivelano perfettamente funzionali. Anche ridurre lo stile ai minimi termini può infatti essere una soluzione apprezzabile, (…) minimale e banale non sono affatto sinonimi.
Dunque, abbiamo a che fare con una analisi che non si limita alla registrazione dei fenomeni verbali ma si assume la responsabilità di interpretarne la valenza di volta in volta, caso per caso. Lo stile è assunto come bussola per orientarsi nella variegata molteplicità dei testi odierni e per ovviare all’assenza ormai endemica di tendenze dichiarate o evidenti. Tutto sommato, per quanto la stagione dello sperimentalismo gli appaia ormai lontana, Matt è in grado di individuare con acume i testi più eccedenti: per esempio, Sirene di Laura Pugno con la sua «scrittura costitutivamente refrattaria all’enfasi»; Swing di Michele Fianco, dalle linee narrative continuamente sabotate; o ancora il Geco di Gualberto Alvino che sfrutta da par suo «le risorse della letterarietà»; o il giallo d’autore di Mario Quattrucci dotato di «spaesamento».
Narratori italiani del Duemila è un libro che può servire come mappa e come utile repertorio per i lettori, ma soprattutto contiene un necessario imperativo a “non smettere”:
Nelle discussioni letterarie veicolate dai media si spacciano quotidianamente monete false: idee ricevute, pregiudizi, paralogismi sostituiscono troppe volte le argomentazioni razionali che sarebbe lecito pretendere da ogni discorso pubblico. Chi è in grado di esercitare la nobile arte della critica non deve abdicare alla propria funzione, anche se il mondo sembra andare nella direzione di un deciso abbandono di ogni idea di autorevolezza, per cui ciò che conta non è persuadere grazie alla pregnanza delle riflessioni, ma ottenere il facile plauso di chi vuole solo che si confermino le sue opinioni. Ogni lettura attenta e meditata dei testi può costituire un mattone utile ad alzare un argine contro la deriva anticulturale manifestamente in atto: nessuno si illude certo che possa davvero servire, ma non di meno tentare è obbligatorio, se non si vuole rinnegare tutto ciò in cui si crede. La centralità del testo, in questo quadro, non è un tecnicismo: è uno strumento politico.
Il “compito della critica” è da mettere, secondo Matt, nel novero delle pratiche “ecologiche”.
Personalmente concordo in molti punti e voglio sottolineare, tra i piccoli dettagli, l’eliminazione dell’articolo davanti al cognome delle autrici; non so come la pensino le femministe, ma a me pare un doveroso gesto di parità. E poi, in generale, riaffermare l’analisi testuale è anche a mio parere essenziale (ultimamente, chiamato a far lezione in un Dottorato, intitolavo il mio intervento proprio Difesa dell’analisi testuale). In proposito, Matt presenta un argomento che ritengo decisivo: al contrario di ciò che ritiene l’odierna retorica dell’emozione, l’analisi non rovina affatto il piacere («L’esperienza didattica mostra che se ben condotte le tanto vituperate analisi formali non deprimono ma anzi favoriscono il piacere della lettura negli studenti»). Il piacere, nello specchio della consapevolezza, non si annulla, ma al contrario si accresce.
15/03/2022
Ciao Francesco, questo libro di Luigi Matt mi incuriosisce molto. La tua analisi inoltre è sempre generosa, e molto godibile è la lettura.
CiaoCiao
Antonella
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