Il Sanguineti illustrato

Sanguineti narratore. Non solo nei romanzi, composti in trilogia e ora raccolti con altre prose in Smorfie, Sanguineti è stato narratore in poesia, magari in stile epistolare e sempre con una programmatica laconicità. Citando, intendo dire, particolari precisissimi senza però esplicitarne il contesto, come se non fosse importante o comunque il lettore dovesse “collaborare” immaginandoselo da sé. Con enigmi niente male. Per esempio, in Codicillo alle sezioni 17 e poi anche 19, nomina una Faust femmina che non è affatto un travestimento, bensì un realema: Faust era il nome della gatta di Filippo Bettini che teneva compagnia a Edoardo quando veniva ospitato nella casa di via della Vetrina. Commentatori futuri appuntatevelo, vi potrebbe servire.
Neanche tanto futuri: perché di commentatori giovani del Sanguineti ce ne sono già vari, per fortuna. E tra essi Chiara Portesine, che ha pubblicato di recente, nelle preziose edizioni Fabrizio Serra, un volume intitolato “Una specie di Biennale allargata”. Il giuoco dell’ecfrasi nel secondo romanzo di Edoardo Sanguineti. Ecco, appunto, il Sanguineti narratore (o antinarratore) sottoposto ad accurata indagine filologica a proposito del suo secondo romanzo Il Giuoco dell’Oca, del 1967 – il primo era stato il Capriccio italiano del 1963, che aveva aperto la stagione del romanzo sperimentale della neoavanguardia. Con quella seconda prova si accentua ancor di più la frammentarietà del progetto, perché il riempimento delle caselle del gioco (o “giuoco” come scrive il nostro con ipercorrettismo) è fatto attraverso la descrizione di immagini tratte da varie fonti prevalentemente di arte figurativa coeva, più o meno taciute. Perciò Chiara Portesine ha orientato il suo commento sull’ecfrasi (cioè il trattamento descrittivo delle immagini) e sulla ricerca delle fonti sottostanti.

Il libro è una ottima prova di filologia del contemporaneo. Quella laconicità programmatica di cui sopra, la scarsità di indicazioni quasi a lasciare che i “quadretti” vengano presi per immaginazioni oniriche richiedono una ricerca davvero complessa e paziente, nella quale Chiara Portesine dimostra una straordinaria competenza plurima, di storia dell’arte e non solo, in grado di produrre una sorta di edizione commentata del Giuoco, un vero e proprio “Sanguineti illustrato”. Un vademecum prezioso e uno strumento indispensabile per la critica del romanzo. Attraverso la precisa identificazione della «pinacoteca dei realia collezionati dal poeta» l’autrice ha potuto correggere errori e approssimazioni degli interventi precedenti e ha evidenziato il valore dell’ecfrasi come momento costitutivo del progetto testuale.
Fermo restando che rimane sempre possibile un approccio diretto, per così dire “ignorante”, da parte del «lettore scarsamente informato», è chiaro che il lavoro di ricostruzione delle opere-base serve – continuando con i termini di quel saggio capitale che è La missione del critico – a “disambiguare l’indovinello”. Indubbiamente la percezione intuitiva viene arricchita con l’aggiunta dei cartellini e delle didascalie delle opere presentate in questa sorta di “Biennale allargata”.
Per intanto vorrei seguire alcune suggestioni metodologiche indotte da questo lavoro. In primo luogo il ritrovamento della realtà delle fonti è dimostrazione che il testo non è inventato di sana pianta: l’esito è quello di un Sanguineti meno surrealista e più dadaista (quasi citazionista in anticipo). In secondo luogo, è significativo il richiamo ai «significati letterali»: di fronte alle derive dell’interpretazione e alle “indecidibilità” decostruttive, preferisco anch’io la strategia “terraterrosa” (neologismo del nostro) che parta dalla lettera del testo, ancor meglio da quello che della Volpe chiamava il “letterale-materiale”. Da questo versante, la ricerca di Chiara Portesine ottiene il risultato (che non sarebbe stato sgradito all’autore in oggetto) di “storicizzare” Sanguineti:

In conclusione, considerare il Giuoco come un prodotto culturale del proprio tempo non implica alcun disvalore negativo, soprattutto se l’operazione viene rapportata a uno scrittore per il quale la storia della letteratura dovrebbe coincidere idealmente con una «storia del ‘materiale verbale’ lavorato dalle società umane» e non con un catalogo di assoluti trascendentali. Il Giuoco dell’Oca è un testo che potrebbe essere stato scritto soltanto a metà degli anni sessanta; il repertorio di immagini accumulate dallo scrittore-collezionista riproduce, in forma quasi didascalica, l’orizzonte conoscitivo e iconografico dell’«operatore culturale» che si trovava a vivere all’interno di una precisa rete di occasioni plastiche, in cui un’idea romanzesca poteva nascere a margine di una mostra o nell’intervallo tra due atti di una pièce teatrale. Restituire il Giuoco alla storia, attraverso l’ecfrasi, significa provare a comprendere il messaggio più pedagogico che intellettualistico dell’esperimento, rovesciando un certo paradigma stanco che vede la Neoavanguardia come un laboratorio aristocratico di virtuosismi elaborati a dispetto (letteralmente) del pubblico. Soltanto rimettendo il romanzo con i piedi sul terreno della storiografia sarà possibile iniziare a interrogarsi criticamente sulla presenza simultanea di Rauschenberg e di Adami, di Bosch e di Batman, allineati dalla scrittura sanguinetiana non in virtù di una poetica della giustapposizione ma, piuttosto, come sintomi di un discorso che idealmente poteva proseguire, fuori dal perimetro di ogni capitolo, nei dibattiti di «Marcatrè» o del «Verri». Il Giuoco rappresenta quasi un’istantanea ritagliata dal continuum della vita interdisciplinare della Neoavanguarclia, in cui il ‘travestimento’ di un manifesto di Rotella, ad esempio, si inserisce nello spazio tra una visita collettiva a una sua mostra e la discussione serale sugli sviluppi contemporanei del collage. (…) Il Giuoco è una Wunderkammer, senza dubbio; ma una Wunderkammer storica e materialistica, (…).

Ora, a partire dalla difesa del senso letterale, si potrebbe anche dedurre una differenza diametrale tra l’ecfrasi e l’allegoria, in quanto la prima è descrizione mimetica, mentre la seconda è rimando ad “altro senso”. Tuttavia, nel caso del Giuoco, si può ipotizzare una diversa allegoria, non già relativa alle singole “figurine”, ma derivante dall’assetto complessivo. Allegorismo per somma di ecfrasi, quindi. D’altra parte, nello stesso anno a pochi mesi di distanza dal romanzo, Sanguineti edita sul primo numero di “Quindici” La letteratura della crudeltà che si può considerare il primo tentativo teorico di connessione tra avanguardia e allegoria: «Una letteratura della crudeltà dal punto di vista della critica (dell’esame critico della parola letteraria), opera consapevolmente – cinicamente – per allegorie»; contribuendo anche (sulla scia di Benjamin) a strappare l’allegoria dalla sua configurazione tradizionale.
La ricerca di Chiara Portesine non si limita ai ragguagli filologici delle relative provenienze, ma analizza anche con acume il trattamento riservato alle immagini prelevate: non c’è solo descrizione (ecfrasi come percorso del regard) ma anche dinamicità (quindi un’aggiunta performativa), anche al costo, in caso, di abbassare parodicamente la valenza delle immagini.
Giustamente viene sottolineata l’istanza dadaista del Giuoco; e non per nulla. Infatti, procedendo nella seconda metà degli anni Sessanta, la carica eversiva dell’avanguardia superava man mano i progetti di normalizzazione (proposti da Barilli e Guglielmi nei primi convegni del Gruppo 63). Per quanto i dati d’archivio lo dimostrino concepito poco dopo il Capriccio, Il Giuoco dell’Oca esce nel 1967, che è il medesimo anno della Société du spectacle di Debord e si trova, facile rilevarlo, sulla soglia del Sessantotto. Sanguineti non nutrirà alcuna simpatia per il movimento degli studenti, basta andarsi a vedere su “Quindici” Rivolta e rivoluzione; né aveva cambiato parere a distanza di tempo: ricordo una accalorata discussione notturna in un post-convengo di Salerno, presenti la moglie Luciana e Niva Lorenzini, nella quale occasione, ovviamente, Edoardo rimase irremovibile nel diniego. Eppure, proprio Il Giuoco dell’Oca risente di quel clima che va surriscaldandosi, e ne risente nel risoluto estremismo antinarrativo. Il «giuoco dell’ecfrasi», come lo definisce Chiara Portesine, è un modo per sottoporsi a una contrainte esterna ed oggettiva, facendo sì che il discorso salti di casella in casella senza alcuna continuità narrativa e senza alcuna possibilità di riferirsi a un “mondo possibile” che non sia la “Galeria” o “Biennale allargata”, cioè una sorta di spazio espositivo ideale. A differenza dell’engagement di molta parte della controcultura sessantottina, qui la politicità è indiretta e si sprigiona dalla torsione dello specifico letterario, tramite lo straniamento garantito dall’ecfrasi.
Come dirà anni dopo Sanguineti fin dal titolo del suo intervento al convegno di “Alfabeta” del 1984, giuoco sì, ma pur sempre “giuoco sociale”.

24/02/2022

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