Notizie dall’America: è uscito per l’editore University of Toronto Press il libro di Gianluca Rizzo Poetry on stage. The theatre of the Italian neo-avant-garde. Il teatro della neoavanguardia italiana: che un libro su un nostro movimento artistico esca dall’altra parte dell’Oceano la dice lunga sulla miopia della critica indigena, che lo trascura dedicandogli, al massimo, qualche frecciatina sulla sua “desuetudine”. Rizzo invece ha esplorato l’azione del Gruppo 63 con ampio spazio e addirittura a partire da un aspetto apparentemente secondario e tuttavia rilevante come gli esperimenti di tipo teatrale, accompagnando l’indagine storica con la convinzione che i problemi cui rispondeva la neoavanguardia non sono poi molto diversi dall’oggi.
Il libro è organizzato in una serie di capitoli che riguardano: prima di tutto gli spettacoli degli autori del Gruppo 63 organizzati a margine delle iniziative collettive (uno spettacolo accompagnò proprio, nel 1963, il convegno fondativo di Palermo); poi il confronto con l’avanguardia teatrale dell’epoca (da Carmelo Bene a Ricci, a Quartucci, a Scabia: di uno spettacolo di quest’ultimo è l’immagine in testa a questo articolo); inoltre il libro procede a vari sondaggi sul teatro di Pagliarani (da un incontro con lui ha preso slancio la ricerca), di Porta, Giuliani, Celli; altri (interessanti approfondimenti riguardano i rifacimenti dell’Ubu roi e del Faust); e infine il libro si chiude con le interviste originali a Valentina Valentini, Pippo Di Marca, Nanni Balestrini e Giuliano Scabia.
Mi pare che il libro, molto interessante nel suo approccio ai testi, dimostri nello stesso tempo una convergenza e una divergenza.
La convergenza sta nella “naturale” propensione della scrittura della neoavanguardia per il teatro. Quanto più la scrittura si dinamizza per uscire dalle piattezze della rappresentazione monodimensionale con una «antimimetic form» e tanto più è portata a cercare sbocco nel teatro, trovandovi anche un incontro più ravvicinato con il pubblico e quindi la possibilità di una verifica del proprio impatto. In alcuni casi, come quello di Pagliarani, la scrittura poetica nasce già in partenza orchestrata per la recitazione, con una precipua ricerca del ritmo, si potrebbe dire “gestuale”. Qualcosa di analogo avviene nei “pastiches dialogici” di Giuliani, che utilizzano voci diverse, togliendo però carattere ai personaggi. A proposito di Pagliarani, Rizzo scrive:
Elio Pagliarani’s poetry strives to go beyond the written page ‒ that is, strives to be performed. Throughout his career, Pagliarani established explicit, symbiotic relationship between poetry and theatre, so much so that, one could say, his poetic genius speaks with a dramatic accent.
Vi è, però, dietro le messe in scena dei novissimi e dei loro compagni di strada una sottile contraddizione. Infatti, in quello stesso periodo, il teatro equivalente (cioè l’avanguardia teatrale) stava facendo una operazione di “riduzione del testo”, mettendo la parola in secondo piano rispetto alla scena e al corpo dell’attore. Evidentemente, invece, i testi “per teatro” del Gruppo 63, anche quando magari sollecitavano la regia a soluzioni innovative, partivano giocoforza dalla scrittura e quindi parevano insistere in un vecchio rapporto tra parola e rappresentazione. Ecco allora la divergenza, sottolineata anche nelle interviste, che ha impedito un completo amalgama di quelle tendenze che pure, in fondo, muovevano da presupposti molto simili. Secondo Rizzo
Hence the reservations and ambivalence toward the Neoavanguardia voiced by some of the actors and playwrights of the Nuovo Teatro: the contemporary experiments in the field of dramaturgy were moving toward an increased focus on the expressive potential of actors and the resources offered by their bodies, and away from the traditional performance of a script.
Tutto sommato, partendo da un fenomeno poco noto e facendo opera di ricostruzione storico-critica in base a dati spesso dispersi, il libro torna a riproporre la questione dell’avanguardia sperimentale come via maestra per contestare la concezione suggestiva o piattamente realistica sia della poesia che del teatro. Nelle conclusioni, come accennavo, Rizzo sostiene che il problema non è affatto superato, come molti pretendono:
The great intuition of the Neoavanguardia was, I think, that of focusing its efforts on the linguistic and rhetorical manifestations of injustice, the unbearable pressure on language of those hegemonic institutions that pushed for the commodification and thus the neutralization of all forms of dissent and thwarted any attempt at radical reform by instantly absorbing any antagonistic, discordant elements within the current, dominant economy of the sign. As a consequence, the achievements they attained are still useful today, even if the material and historical conditions are radically different.
Concordo. Oggi più che mai poesia e teatro sono a rischio di banalizzazione forzata. Devono salvarsi l’un l’altra: il teatro può dare alla poesia uno scatto in più, la poesia a sua volta può aiutare il teatro a uscire dalle sabbie mobili della sit-com, nelle quali è tanto spesso sprofondato.
Eccellenti notizie di riesplorazione di un coté finora trascurato (ma l’avvio della renaissance è dovuto probabilmente a Rizzo stesso con la pubblicazione a sua cura di “Tutto il teatro” di Pagliarani, del 2013); nel 2019, un lavoro assai serio sul tema: “Dalla scrittura al gesto. Il Gruppo 63 e il teatro”, di Giovanna Lo Monaco – https://www.prosperoeditore.com/libri/Dalla_scrittura_al_gesto__Giovanna_Lo_Monaco
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