L’autobiografo riluttante

In tutta evidenza c’è, in questi nostri tempi, una “sindrome autobiografica” che impazza nella letteratura e non solo. Essa si declina in una tendenza della narrativa per il contenuto direttamente esperito dall’autore e nella corrispondente inclinazione della indiscrezione del lettore a recepire toni di confessione e di sfogo. In tutta evidenza, la vita latita, in questi nostri tempi, per cui non resta che scriverla, sperando in tal modo di recuperare il senso mancante. Ciò soprattutto si aggrava per autori dall’età avanzata, volti indietro nostalgicamente e portati a riflettere sui fallimenti della loro propria storia (sicché autobiografismo e sconfittismo si danno frequentemente la mano con esiti alquanto penosi).
Di carattere particolare, tuttavia, è il libro autobiografico di Angelo Guglielmi, Sfido a riconoscermi (La Nave di Teseo). Non voglio dire che le sue radici avanguardistiche abbiano garantito Guglielmi dal fare come tutti gli altri, eppure non si può negare che nel suo “cadere” nell’autobiografismo ci sia qualcosa che frena e che distingue dall’andazzo generale.

Il libro è, in qualche modo, l’autobiografia di uno che non crede nell’autobiografia ‒ e quindi è un po’ quella pericolosa postura brechtiana del “segare il ramo su cui si sta seduti”. Lo stesso titolo sottolinea il carattere di “sfida”: sfida al lettore, se sarà in grado di attraversare il processo di “identificazione”; ma sfida, anche, al genere stesso, nel quale l’autore ha scarsa fiducia. Fin dall’inizio, infatti, emerge la consapevolezza che l’atteggiamento di chi parla di sé è passibile di menzogna e passibili di menzogna sono addirittura i più sinceri e vividi ricordi. A un complessivo sospetto sulla parola, si aggiunge una sorta di alterazione temporale che riduce di molto il fascino dell’infanzia come luogo magico di native esperienze e quindi per conseguenza momento topico da recuperare in ogni autobiografismo che si rispetti; al contrario, Guglielmi afferma di essere scarso di infanzia e di essere nato «già adulto»: «All’origine di questo atto che non esito a chiamare di superbia vi era la mia decisione (quasi vocazione) di sentirmi, ancora bambino, già adulto e come tale comportarmi». Ed ecco quindi una ricostruzione non trionfalistica, non edulcorante e semmai il gusto di mettere in luce il suo sé passato in situazioni antipatiche o comunque non eroiche. Sicché il ritratto procede deliberatamente controcorrente.
Ma c’è di più. Il libro autobiografico di Guglielmi è un testo ibrido. Non soltanto perché l’autobiografia di un intellettuale e di un critico che ha attraversato l’intero dibattito dal secondo Novecento a oggi non può che essere una rievocazione culturale e una testimonianza degli eventi cruciali che hanno segnato l’epoca. Oltre a questo, Guglielmi non si preoccupa di alternare le sue “ricordanze” con veri e propri brani critici e brevi recensioni. Ci sono passaggi dedicati ai suoi più prossimi compagni di strada (ce n’è per Malerba, Giuliani, Balestrini, Calvino, Celati e molti altri), ma ci sono anche riflessioni su autori più discosti; ad esempio, questa valutazione critica molto acuta sugli esiti di Pasolini (che mi pare alquanto condivisibile):

È proprio vero che di Pasolini esiste lo scrittore (il poeta) e non le sue opere? Certo è proprio vero perché per lo stesso autore le opere maggiori (che nella prima parte della sua vita sono i due romanzi romani — ai quali si aggiunge una ricca quantità di altri piccoli romanzi e abbozzi per così dire costruiti con materiali di risulta) sono state tentativi di assalto alla realtà dolorosamente, per sua stessa confessione, non riusciti (o solo molto parzialmente); ed è vero anche perché, se vogliamo essere sinceri, sono fragili ed esili: Ragazzi di vita è un interessante saggio di antropologia linguistica, mentre Una vita violenta è un romanzo veramente brutto (lo confessava apertamente lo stesso Roberto Roversi suo sodale e complice nella direzione della rivista Officina).

E non per niente al libro è aggiunta in omaggio ‒ con l’originale inserimento di un libretto in una taschina, tutto incluso ‒ la ristampa di tre “storici” saggi su Gadda, usciti negli anni Cinquanta-Sessanta.
Giustamente, Guglielmi è un critico che attraversa i generi e ne scarta le posture più scontate. Così come fa con l’autobiografia, ugualmente rilutta al lirismo nelle sue modalità più diffuse:

Ho finalmente capito perché ho sempre avuto in sospetto la poesia, non riuscendo mai a prenderla sul serio: da ragazzo, quando andavo a scuola, per ogni poesia (o brano poetico) che mi facevano leggere, mi costringevano a farne la versione in prosa e ne veniva fuori un quadro di pensieri e di sentimenti così comuni e qualunque che ero imbarazzato non solo a rileggerli tanto più a ripeterli a voce; da grande perché sono capitato in un tempo in cui è più facile scrivere versi che trovare un posto di lavoro e la vastità dell’offerta si accompagna alla improvvisazione e casualità della fattura.

E, malgrado sia stato un finissimo critico della narrativa, anzi, proprio per questo, dichiara di scarso valore quello scheletro del racconto ‒ oggi ubiquamente esaltato ‒ che è la trama:

Io dimentico (anzi da sempre dimentico) quasi contemporaneamente alla lettura le trame dei romanzi che ho letto e dei film che ho visto pur trattandosi di romanzi e di film importanti e di peso. Certo non ne dimentico la struttura, il linguaggio e lo stile, ma dimentico il processo, lo sviluppo del racconto del quale ho chiaro il tema (l’assunto), ma non gli aneddoti con cui è raccontato. Di questi quasi subito perdo memoria. Perché?
È perché io sono frettoloso e corro velocemente verso la fine. Sì, può essere, è una delle ipotesi, ma non mi convince.
È perché sono un incontinente e non trattengo più di tanto quel che introietto? No, so per certo che non è questo.
È perché io ho sempre saputo e non ho aspettato di diventare lettore e critico di professione per capire che non è la trama a dare valore a un romanzo, dal quale (valore) la trama (spesso anzi quasi sempre) lo allontana? (…) Sì, è per questo che io dimentico le trame (dandole per scontate).

(Un passo straordinario da “aristocritico”, in cui mi rispecchio con gioia).
Al dunque, il problema che anima l’intero libro è il problema della rappresentazione e del “riconoscimento” (vedi il titolo) in essa. Ed è chiaro che la rappresentazione va considerata non come un dato, ma come il problema. Del resto, c’era da aspettarselo da uno come Guglielmi che, fin dal convegno inaugurale del Gruppo 63 era intervenuto sul recupero della realtà liberata da tutte le incrostazioni ideologiche (quindi anche verbali). E ora torna a dire:

La realtà, infatti, così come a noi si presenta non è obiettivamente affidabile né convincente. Mantenuta nelle condizioni in cui nella vita quotidiana si compie stenta a essere significativa. Le forme tradizionali in cui essa si mostra sono alterate: in tanto passare di tempo in troppi equivoci si sono compromesse, troppe falsificazioni subito. È allora necessario rinnovarle con altre artefatte. È come il caso di un uomo che ha un rene ormai non più utilizzabile: glielo si deve sostituire con un altro non suo anche di plastica, se lo si vuole far sopravvivere; se invece ci si ostina a credere che quel rene sia ancora buono, in breve lo si conduce alla morte.

Con buona pace di tutti gli autobiografi odierni, di prosa facile e senza freni.

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