Poesia senza indulgenza

Così scrive Elio Pagliarani in Come alla luna l’alone (Lezione di fisica, 1968), in una parentesi che interrompe il suo testo: «(Però guarda come al lamento / Il verso si fa compiacente, niente è più facile di questo ma io lo spezzo»). Perché questa rottura? È soltanto il bisogno di un autore intelligente per evitare il banale, quella curva patetica che spesso prende il poetico? È un ritrovato tecnico per disporre i versi “scalati” nella pagina? O c’è dell’altro?Aggiungo un altro campione, la parte iniziale de La meccanica di Paolo Volponi (Nel silenzio campale,1990):

Non si possono più intra-
prendere viaggi, né sono pra-
ticabili percorsi di conoscenza;
non ci sono più luoghi di contra-
sti e di formazione, non la veemenza
dei maestri: la lingua stessa è tra-
mandata così come la scienza
è finita con una fissione, tra-
dita la rivoluzione, l’esperienza
proibita, l’identità filtra-
ta tra le norme e l’assenza
dei personaggi; ma non mai tra-
scorse infanzia e adolescenza
e solo concesso tra-
passo la stretta deferenza
alla ripetizione, tra-
gico il passato, dubbia la presenza
proprio perché costante si tra-
duce in dovere, in obbedienza (…)

Anche in questo caso ci si può domandare: è soltanto uno stratagemma per ricavare – mediante l’antico procedimento metrico della “tmesi” che interrompe la parola – delle rime inusitate e insistite? Insomma, qui non si tratta di una rottura passiva, ma di una rottura attiva, progettata e intenzionale. E dunque ci sarà un motivo più ampio che non il semplice intento di sorprendere.
Non sarà che il mondo moderno è andato in pezzi, per cui neanche la poesia può starsene intera? Basterebbe andarsi a rileggere il vecchio Marx del Manifesto:

Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con II loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.

Il problema però è che questo meccanismo implacabile (la legge di ferro del mercato che sfugge al controllo dei suoi stessi operatori) produce una ambivalenza sempre più marcata: se da un lato si giova di un’opera distruttiva, in quanto ha bisogno di produrre consumatori per così dire flessibili, in modo da poter aderire ai cambiamenti dell’offerta e alla pluralità dei richiami (un consumatore stabile non favorirebbe la riproduzione del sistema), dall’altro lato deve sopperire l’individuo ed evitarne l’esplosione non solo con il riconoscimento burocratico, ma con opportune compensazioni identitarie, anche a costo di inventarsele di sana pianta o di far galleggiare le più antiche e garantite (si pensi solo a quante teste coronate ha ancora la avanzata Europa). Quand’anche premoderne, sicché qualcuno ha argutamente commentato che “non siamo mai stati moderni”…
Insomma, il “cinico” e il “patetico” sono le due facce complementari, il culo e la camicia del capitalismo. Anche il “poetico” in quanto tale finisce arruolato nella fiera delle identità compensative e prolifera infatti come sfogo io-centrico, forse soppiantato dai social, ma non a caso prosperante al loro interno (quanti sedicenti poeti su Facebook!). Intanto, la narrativa e la fiction, adeguatamente industrializzate, propinano modelli di comportamento attraverso i processi di immedesimazione nei personaggi (ora giustificati, su base neurologica, anche dalle teorie letterarie dell’empatia). Aveva fatto bene, invece, il grande romanzo novecentesco a basarsi sulla fragilità per intaccare la figura dell’eroe ed aprirla a un orizzonte problematico: così la nevrosi dello Zeno sveviano, la marginalità dei personaggi di Kafka sperduti nell’incubo impersonale della legge o del potere, l’infantilismo di Gombrowicz, anche il personaggio di Musil che non a caso è un uomo senza qualità, e molti altri fino al Volponi di Memoriale, il suo primo romanzo, dove Albino Saluggia viene cacciato dalla fabbrica per i suoi problemi psicologici.
Lo abbiamo visto: la spezzatura che Pagliarani imprime al suo verso, spesso disponendolo a scalare, non è solo un espediente ritmico, ma è – a suo dire – un modo per escludere la condiscendenza al “lamento”. Pagliarani, del resto, non è alieno da uscite che sfidano, agli occhi del lettore odierno, il politicamente corretto: «i Germani di Tacito nel fiume / li buttano nel fiume appena nati / la gente che s’incontra alle serali» (La ragazza Carla, 1962). Cinismo? Nient’affatto, qui si tratta invece di morale, di un’etica del “principio di realtà” per cui ogni libertà illusoria o benevolenza materna finiscono per impoverire una possibile alternativa che invece deve partire dalla durezza della situazione. Pagliarani lo dice, nel suo poemetto, anche attraverso un uso curioso della metafora. A un certo punto, dalle finestre della Piazza del Duomo a Milano, se si guarda in basso si vede la folla di una giornata lavorativa («quella gente che marcia al suo lavoro / diritta interessata necessaria»), ma se si guarda in alto c’è il cielo:

E questo cielo contemporaneo
in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto
questo cielo colore di lamiera.

Il cielo di Milano evidentemente è grigio e nuvoloso, dello stesso colore della lamiera, ma la lamiera è proprio il contrassegno dell’industria dell’epoca, come spiega il testo subito dopo, dicendo che il cielo

non prolunga all’infinito
i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli
coperti di lamiera?

Ma non è finita perché il procedimento retorico viene immediatamente commentato come una effettiva messa in pratica sul linguaggio poetico dell’etica. Il cielo è morale:

È nostro questo cielo d’acciaio che non finge
Eden e con concede smarrimenti,
è nostro ed è morale il cielo
che non promette scampo dalla terra,
proprio perché sulla terra non c’è
scampo da noi nella vita.

E il cielo è «d’acciaio» addirittura due volte: la prima secondo la logica analogica che associa il suo colore a quello del metallo; la seconda, perché, così facendo, è contraddetto l’“incielarsi” poetico e l’evasione verso l’alto viene riassorbita nel mondo terreno della modernità, sicché, di fatto, la durezza dell’acciaio si traduce nel rigore che non consente alcun rassicurante esonero o facile utopia.
E Volponi, l’altro campione qui utilizzato, ha affrontato, sia in narrativa che in poesia, i temi dell’angoscia, dell’insonnia, quindi della fragilità psicologica, ma esattamente nel contesto di un discorso industriale, collegato all’alienazione e allo sfruttamento del lavoro, compresa la crisi dell’emancipazione operaia e della lotta di classe. Con questo mix, sostenuto dall’incalzare della rima ossessiva, Volponi ha realizzato, soprattutto in Con testo a fronte, dei veri capolavori, come La deviazione operaia, Petra Pertusa e mista, Un ordine industriale, Vista sull’anno parallelo. Ma qui vorrei rifarmi a un dettaglio del suo romanzo Corporale, uscito alla metà degli anni Settanta, in mezzo agli ultimi barlumi della grande narrativa novecentesca, ormai incalzata dalla deriva postmoderna. Corporale ha un protagonista preso dalla paura dell’atomica e flessibile al punto da trasformarsi, in alcune parti, in un bandito messicano. Quando si rifugia nella sua Arcatana, dovrebbe ritrovarsi nella natura, ma lì nemmeno ha pace. Lo troviamo intento ad attaccare con l’accetta un albero, colpevole solo di avere un aspetto troppo languidamente poetico. Leggiamo l’abbattimento del sorbo:

E così bravamente riuscii a fare tutto e presentarmi al sorbo mezz’ora prima del tramonto. Bello, dolce, innamorato, leccato-imbellettato, che si teneva stretto contro il piccolo vento di sud-est. (…) Ruppi un ramo con le mie mani e un altro con l’accetta. (…) Mi ributtai addosso con l’ascia lunga: un paio di vividi colpi per aprire un taglio dove inserire la sega elettrica. In meno di due minuti fu abbattuto: lo sentii sussultare (…): riazionai la sega e lo sentii morire con una mano sul tronco, cadere all’indietro a schiantare l’ultima corteccia stramazzando al suolo.
E così vada a farsi fottere ogni bel ricordino. Vidi che la terra sotto era triste per aver perduto il suo poeta immobile. O non era una specie qualunque di musicista romantico con quella chioma o di pattinatore artistico bravissimo ad inchinarsi? Non era sempre uno che salutava e stava li fermo a raccontare i fatti suoi e a rimirar sempre il panorama e a sospirare sulle nevi di una volta? Le sue sorbe? Le porgeva con troppa cerimonia piuttosto disposto a conservarsele addosso per apparire più giovane. La morte di un tale artistoide libera il popolo, anche quello delle formiche e anche quello dei falaschi.

La personificazione del sorbo vale a caricarlo di un valore simbolico che viene oltraggiato e rifiutato; ma nello stesso tempo è sottolineato il cattivo uso della poesia proprio nell’attribuzione di valore alla natura. Aldo Mastropasqua la definì, in un suo intervento in cui citava questo brano, «una scrittura senza nessuna indulgenza». Ed effettivamente vi possiamo scorgere l’approdo della scrittura di Volponi dalla parte opposta della condiscendenza non rigorosa della letteratura compensativa e consolatoria. Non per niente, l’autore fece appena in tempo a vedere la discesa in campo di Berlusconi e lo ritrasse come un “venditore di indulgenze”, proprio così, «di grandiose speranze e indulgenze»…

29/11/2023

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