Attorno all’allegoria ho lavorato fin dall’inizio della mia attività, seguendo le indicazioni di Walter Benjamin, con vari sondaggi e infine con un libro che ho già riscritto una seconda volta e mi accingo a ripubblicare in una terza versione. Perciò mi ha naturalmente attirato il libro recente di Fredric Jameson intitolato Allegory and Ideology (editore Verso). Per altro, stimo Jameson il maggior teorico non solo letterario attualmente in circolazione, per quanto mi capiti (soprattutto sulla questione del postmoderno) di non essere del tutto d’accordo con lui. Eccomi dunque pronto a una lettura molto attenta e ad un confronto che sicuramente presenterà importanti spunti di riflessione. E poiché il libro di Jameson si presenta puntato sulla numerologia del quattro (l’allegoria “fourfold”, articolata sui quattro livelli), ho deciso di dividere anche il mio commento in quattro puntate. Questa è appunto la prima.
- Quattro livelli contro la personificazione
Anche Jameson non è la prima volta che affronta il problema, sebbene non l’abbia fatto mai in modo così sistematico. Già nel suo primo libro, Marxismo e forma (1971, trad. Liguori 1975), si era occupato dell’inserimento dell’allegoria nei discorsi dei marxisti-modernisti, commentando ironicamente, a proposito di Ernst Bloch, la strana commistione («Allegory and Communism make strange bedfellows»).
E, a proposito di Benjamin, collegandone la ripresa al modello dantesco dei “quattro livelli” (che quindi non arriva adesso inaspettato):
Infatti si capisce il pensiero di Walter Benjamin solo se lo si assume come allegorico, come una serie di livelli paralleli e discontinui di meditazione che assomigliano al modello di composizione allegorica descritto da Dante quando, nella sua lettera a Can Grande della Scala, parla delle quattro dimensioni del suo poema: la letterale (le avventure del suo eroe nell’al di là), la morale (il destino finale della sua anima), l’allegorica (in cui i suoi incontri riassumono alcuni aspetti della vita di Cristo) e l’anagogica (dove il dramma prefigura il procedere del genere umano verso l’Ultimo Giudizio).
Più tardi, ne L’inconscio politico (1981; trad. Garzanti 1990), che ritengo il più importante contributo metodologico dell’autore sul tema dell’ideologia, i “quattro sensi” erano rimessi in ordine e in parte rinominati, traducendo il livello morale in psicologico e quello anagogico nella storia dei modi di produzione, nell’ambito di un progetto di “rifunzionalizzazione” e connessione del marxismo con la semiotica e la psicoanalisi.
Il libro recente, in fondo, è l’ampliamento e la verifica di quelle premesse, perché l’allegoria “quadruplice” diventa la chiave di volta del discorso che percorre tutti i diversi capitoli. L’aspetto nuovo e piuttosto interessante è la contrapposizione di questa “allegoria stratificata”, per dir così, con la pratica della personificazione allegorica, che è proprio quella che ha portato, alla fine del Settecento, alla condanna romantica dell’allegoria, per il fatto di essere facilmente codificabile e assai convenzionale (la Morte come scheletro con la falce, il Tempo come vecchio alato, l’Invidia con le serpi per capelli e via dicendo).
Questa distinzione tra allegoria in senso stretto e personificazione in senso stretto non era mai stata approfondita e io stesso confesso che nella prima versione del mio libro avevo omesso di occuparmene. Ma la distinzione è significativa: infatti nella personificazione che trasforma in personaggio un termine (astratto o generico che sia) l’allegorismo perde qualsiasi enigmaticità, perché cosa sia rappresentato ci viene detto subito (in pittura attraverso una scritta o un cartiglio; in letteratura con l’iniziale maiuscola: il Tempo, la Morte). Contro questa facilità, giustamente a maggior ragione Jameson rivendica la maggiore complessità dei quattro livelli; mentre la personificazione è immediatamente riducibile al suo significato (è uno schema duale tra rappresentante e rappresentato), l’allegoria “tetradica” è un rappresentante che possiede una pluralità di rappresentati.
Effettivamente, la personificazione (che Jameson definisce «oldfashioned medieval form» e che qualifica negativamente come “cattiva allegoria”), sia che si configuri moralmente come combattimento delle virtù contro i vizi, sia che spieghi il tormento interiore del personaggio come contrasto tra Amore e Odio, si basa su caratteri fissi e su una struttura rigidamente manichea. Il punto per certi versi provocatorio del nuovo libro di Jameson è di imparentarla ad altre forme biunivoche, come la metafora e addirittura il simbolo (anch’esso «dependent on a logic of similarity»). E dico “addirittura” perché nel dibattito contro l’allegoria è stato proprio il simbolo a venire investito di una significazione plurale, a partire da Goethe, in quanto la sua modalità evocativa suggerirebbe a ciascuno un senso diverso. Ho sempre pensato che questa molteplicità del simbolo non fosse altro che una banalità camuffata, in quanto, sulla base dell’intuizione immediata, ciascuno vedrà nel simbolo la prima cosa che gli viene in mente, quindi il senso più comune che ci sia… Ora Jameson rovescia opportunamente i ruoli dell’univoco e del plurivoco (uso i termini dellavolpiani, pensando che anche della Volpe ha rifiutato l’allegoria identificandola soprattutto con la personificazione); e, sulla base di questa redistribuzione, attribuisce all’allegoria polisensa una direzione storica che la porta a riemergere nel recente periodo: le due tipologie si oppongono allora su di un asse temporale per cui si possono distinguere come «traditional allegory» e «contemporary allegoresis or interpretation». È ovvio che questo scarto storico non è assolutamente netto, in quanto si può facilmente obiettare che i “quattro sensi” sono già in Dante e le personificazioni continuano a essere in salute ancora in Baudelaire; tuttavia, la nostra epoca vedrebbe il compimento di questa lotta che proviene dal passato; ormai nel nostro mondo le personificazioni si sono dissolte:
In conclusion, then, I return to the question of personification, which is so often the stumbling block and the source of all kinds of misunderstandings about the nature of allegory and in particular of allegory today. The dissolution of personification is part of what I have characterized as the dissolution of substantialism in modern thought and its replacement by relationality (…).
Restano da chiarire alcuni punti: se non ci sia una “resistenza delle personificazioni”; e se l’allegoria vincitrice non sia un metodo di interpretazione piuttosto che di produzione del testo.
(Segue)
L’ultima questione, sulla quale attendo la risposta nel secondo capitolo, è quella secondo me più intrigante in assoluto. La definizione di “allegoria” fornita da Vattimo nella voce dell’Enciclopedia Europea legittima l’idea che l’allegoria possa essere allo stesso tempo un modo di produzione e un modo di interpretazione del testo. Trascrivo: “L’allegoria è un procedimento retorico ed ermeneutico mediante cui, rispettivamente, si esprime un senso diverso da quello indicato direttamente dalle parole o si risale, nell’interpretazione, al senso riposto di ciò che è detto”. Ma quando si risale appunto (utilizzando per così dire una ermeneusi allegorica) cosa si fa esattamente? E’ legittimo pensare che – come hanno fatto i neoplatonici con la cultura pagana o i teologi cristiani con il “Cantico dei cantici” – si possa finire per far dire al testo ciò che si vuole?
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