Gruppo 63 a teatro

Senza bisogno di aspettare il solito anniversario (ancora lontano, cadrà nel 2013), torniamo a parlare del Gruppo 63 grazie al libro della giovane studiosa Giovanna Lo Monaco che ha compiuto una minuziosa ricerca sul versante teatrale della neoavanguardia italiana. Il libro s’intitola Dalla scrittura al gesto. Il Gruppo 63 e il teatro, ed è pubblicato da Prospero editore. Apparentemente potrebbe sembrare un argomento marginale, una ricerca di quelle che si scelgono quando il resto è stato già tutto trattato ed acclarato; ed effettivamente, se si pensa alla prima antologia del gruppo, che pure comprendeva alcuni scritti teatrali, la neoavanguardia nel suo complesso si presentava specificamente come “la nuova letteratura”. Nel convegno fondativo, il teatro era riservato per le serate, quasi fosse un momento di riposo dopo le fatiche del dibattito teorico e delle (miticamente feroci) sedute critiche sui testi. Eppure, il libro di Giovanna Lo Monaco dimostra non solo l’ampiezza del fenomeno e l’interesse per le scene di tutti i maggiori autori (da Sanguineti a Pagliarani, da Giuliani a Manganelli, Filippini, ecc.), ma anche l’intrinseca valenza teatrale dell’intero progetto delle nuove avanguardie.

Il libro è assai voluminoso, raggiungendo le 500 pagine. E contiene i dati di una ricerca certosina su eventi particolarmente evanescenti, di cui sono rimaste solo sparse tracce recensive e poche testimonianze fotografiche. La Tabella cronologica degli spettacoli e le Schede teatrografiche degli spettacoli sono le parti che servono, appunto, alla ricostruzione storico-fattuale, contenuta giustamente nei limiti cronologici degli anni della attività di gruppo. Ma sono decisamente interessanti anche i capitoli critici, dove si presenta e si discute la “vocazione teatrale” dei poeti e scrittori neoavanguardisti. Certamente si tratta di una “andata verso il teatro” che spesso significa la realizzazione da parte di registi e attori di testi scritti in precedenza dagli autori sperimentali; tuttavia la quantità di queste esperienze indica la ricerca di espansione del testo al di là della pagina scritta. E se sapevamo già degli stretti rapporti degli scrittori con i pittori e i musicisti (ne aveva raccontato, in particolare, Carla Vasio nel suo Vita privata di una cultura), qui il contatto con i teatranti sembra diventare un vero crocevia e nodo delle arti. Il teatro, insomma, si fa punto d’incontro e di verifica delle diverse tensioni che percorrono gli anni Sessanta:

L’espansione nel teatro ‒ scrive Giovanna Lo Monaco ‒ sarà in definitiva da interpretare come verifica, utilizzando le parole di Pagliarani, della funzione sociale della letteratura, con tutto il senso di sperimentazione che il termine porta con sé e, dunque, nel senso della ricerca di una prova empirica come conferma di un’ipotesi premessa, che tuttavia influisca, di riflesso, sulla sperimentazione successiva, centrando in questo modo appieno anche il senso della parola esperienza.

La scelta del teatro da parte degli autori sperimentali, non è quindi episodica e nemmeno è frutto di un calcolo politico di avvicinamento al pubblico alla ricerca dell’impatto diretto (come le serate futuriste). Si tratta invece, prevalentemente, di un allargamento del laboratorio. Indubbiamente il risultato è quello di un teatro di parola; che potrebbe sembrare arretrato in anni in cui l’avanguardia teatrale era alla ricerca di uno specifico liberato dall’apriori testuale. Insomma, tra i due numi tutelari (nomi che ricorrono spesso nella trattazione di Giovanna Lo Monaco), si darebbe per maggiore Brecht più che Artaud. Tuttavia il libro ci fa vedere come, rispetto a Brecht, lo straniamento venga portato alle estreme conseguenze e, invece di essere concentrato nella recitazione dell’attore, sia già presente nel testo:

i testi della Neoavanguardia sfruttano invece la strategia formale dello straniamento ‒ già messa in luce dal formalismo come tecnica propria della poesia ‒ per mettere il linguaggio contro sé stesso e rendere evidente la spaccatura tra significato e significante, calano cioè lo straniamento dentro il testo.

Dall’altro lato, la crudeltà di Artaud viene recuperata, se non altro nell’aspetto autonegativo della comunicazione. La moltiplicazione dei linguaggi e delle voci, infatti, estremizza il plurilinguismo ben oltre la dialogicità: nel caso di Giuliani e di Povera Juliet, il libro sottolinea che il collage di «pezzetti percettivi» non produce «un effetto polifonico, bensì una sorta di sottofondo chiassoso, non la plurivocalità, ma il brusio comunicativo».
Insomma, la parola sperimentale è già teatrale di suo. Porta con sé il principio del montaggio, la dinamica del ritmo “atonale”, la metaletterarietà che diventa metateatralità: tutti elementi che non possono che far bene al teatro, aiutando la sua stessa sperimentazione nel senso della dissonanza e della discontinuità. Scrive Giovanna Lo Monaco:

In questo senso sembra che tutte le arti contribuiscano nel proporre un’estetica della dissonanza interna alla forma che si traduce sul piano della pratica interartistica in una disarticolazione degli elementi: a spingere il lavoro artistico in questa direzione concorrono infatti anche altri modelli provenienti dalle arti visive, e in particolare risulta determinante l’influenza delle tecniche del collage e del montaggio cinematografico.

Come recita il titolo del libro, la scrittura diventa “gesto”, termine eminentemente brechtiano che non indica soltanto la gestualità dell’attore, ma la tensione significativa dell’intero assetto teatrale. Non per nulla il caso più eclatante ‒ cui Giovanna Lo Monaco dedica un importante paragrafo ‒ resta l’Orlando furioso di Ronconi e Sanguineti, in cui, per altro, il testo è un grande classico, ridotto e preparato da un autore sperimentale e realizzato con l’invenzione registica della simultaneità delle azioni; in questa prova l’operazione verbale si espande in una reinvenzione dello spazio-tempo e del rapporto con il pubblico:

La stessa struttura dell’Orlando furioso risponde evidentemente a una logica narrativa non lineare; la divagazione costante, garantita dall’entrelacement ariostesco ‒ che fa da corrispettivo al movimento interno delle stesse “storie erranti” dei protagonisti ‒ crea un raccordo tra le trame, continuamente intersecantesi, che le pone sullo stesso piano temporale. La simultaneità delle scene ariostesche e la discontinuità del racconto compongono un meccanismo narrativo che si pone come fondamento strutturante del testo sanguinetiano.

Rispetto anche ad altre soluzioni di poesia nel teatro, quelle del Gruppo 63 conseguono esiti ben più radicali. E segnatamente: il passaggio dal personaggio all’«eroe linguistico» (non simil-persone riconoscibili, ma processi di linguaggi, registri, stili, citazioni) e con esso l’affermazione di un teatro antimimetico e antipsicologico; e fa piacere che sia una giovane autrice a segnalarlo, oggi che questa problematica appare fuori da ogni immaginazione, nel teatro e non solo.
Che poi, forse, tutta la questione si riduce alla formula sanguinetiana, citata da Giovanna Lo Monaco con annesso rimando a Debord: la «critica spettacolare della spettacolarità». In fondo dobbiamo ammettere che proprio di questa critica avremmo un enorme bisogno.

1 commento su “Gruppo 63 a teatro”

  1. A latere vorrei ricordare che, ai fini della conoscenza della così detta neoavanguardia letteraria, sarebbe assai auspicabile la ristampa di un libro del 1982 intitolato “Teoria e critica della letteratura nelle avanguardie italiane degli anni sessanta”… di cui non ricordo più l’autore. Ricordo bene che quel da quel libro io trassi (nell’anno stesso della sua uscita, quando ero ancora molto giovane) una chiarezza e precisione di idee che prima non avevo, e ricordo anche che qualche anno dopo fui sorpreso di scoprire che l’autore, da me stimatissimo, era praticamente un mio coetaneo. Ciao Francesco!

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