«Sono soltanto un critico» è una battuta di Iago nell’Otello. Potremmo usarla per evidenziare un difetto della figura del critico, più volte stigmatizzato nel corso della storia. In fondo Iago è un invidioso (dei successi di Cassio) fino alle estreme conseguenze che sappiamo. Ecco allora il sillogismo: Iago è invidioso; Iago dice di essere un critico; il critico è un invidioso.
Il che è una comune convinzione: il critico come scrittore fallito, o quanto meno mancato, che si vendica della sua condizione sussidiaria abbassando a suo piacere i veri scrittori “creativi”. Ha perso la “speranza dell’altezza” e quindi, per ripicca, non la concede a nessun’altro. Gli fa le pulci senza remissione.
Questa concezione fin troppo usuale è stata ripresa, in anni relativamente recenti, da un saggista di fama internazionale, George Steiner, che ha ribadito la “secondarietà” della posizione del critico, con l’aria di essere costretto ad argomentare un fatto lapalissiano:
(…) l’atto di dare vita a un’opera d’arte viene prima di qualsiasi altra modalità della sua esistenza successiva. Ha un diritto di precedenza; ha una priorità.
(…)
Il poema, il quadro, il componimento, è la raison d’être, letteralmente `il motivo e la giustificazione di essere’ delle interpretazioni e dei giudizi che suscita. Essi sono, davvero, il ‘pretesto’ di tutte le successive e correlate ‘testualità’, `inter-testualità’ (citazioni, allusioni, reprises) e `contro-testualità’, ma non in un qualsiasi senso banalizzante o diminutivo. È la fonte del loro essere. Il movimento temporale-ontologico che va dal primario al secondario è un movimento che va dall’autonomia – entro i limiti della potenzialità umana – alla dipendenza. (Vere presenze)
Lascio perdere in questa sede la contro-argomentazione possibile secondo la quale, se non fosse per la critica, anche le più grandi opere finirebbero nell’oblio; qui mi interessa formulare un paio di ipotesi su una diversa interpretazione dei difetti del critico e sulle loro conseguenze.
Prima ipotesi: il critico non è invidioso, ma è semplicemente insensibile. Quando gli vengono a dire “capolavoro”, “bellezza”, “emozione” si accorge di non provare nulla. Per altro, tale insensibilità lo apparenta alla maggior parte dei profani (se si guarda bene, al fondo, è una questione di classe…). Ma mentre il pubblico profano, oramai, non soffre più di complessi di inferiorità, “se ne sbatte” ( a dirla un po’ volgare), e volta le spalle accontentandosi della produzione di serie B e C (per non andar oltre) fatta per lui , che è quella egemone, appunto, nel mercato , quella dei media comodi e veloci, che va giù senza imtoppi, il critico sarebbe, io dico, un insensibile però testardo, che vuole capire cosa ci sia sotto a quelle affermazioni di valore, capolavoro, bellezza, emozione e via dicendo. Non avendone il “gusto”, per forza di cose il nostro critico insensibile ma cocciuto non si arrende e si affida all’analisi del testo: ecco allora l’estetica sostituita dalla semiotica, il ricorso all’armamentario di una qualche retorica, insomma il sorgere in aiuto dell’apparato metodologico.
Seconda ipotesi: il critico non è invidioso, ma semplicemente timoroso. Teme, in buona sostanza, che la personalità che gli sta di fronte nell’opera gli tolga spazio, ne sente tutta l’aggressività concentrata – per esempio: la pretesa di spiattellare la propria esistenza come emblematica. Quanto più l’autore mette avanti se stesso nella scrittura e tanto meno il critico si sente in grado di parlarne. Per dire: di fronte a una poesia dedicata alla madre o al padre, alla vigilia di un suicidio o a una malattia terminale cosa resta da fare se non partecipare umanamente alla disgrazia e al dolore? Il che significa sospendere l’attività critica. Di fronte al prorompere dell’autobiografismo, il timore del critico di non avere voce in capitolo mi sembra giustificato: come mettersi a sindacare su portata e valenza di fronte a situazioni che, essendo private, si giustificano da sole? Dopo tutto è per una faccenda di rispetto che il critico su quei casi si astiene e perciò si sente escluso. È chiaro che il suo meglio lo dà di fronte a buone dosi di impersonalità e di enigmaticità, rispetto alle quali è chiamato a esercitare l’interpretazione. Non è che il critico respinga il suo ruolo chiaramente “secondario”, lo ammette, tuttavia intende svolgere con rigore e sul serio la funzione di mediazione che gli è propria. Mentre nell’autobiografismo il contenuto vitale, per dir così, già tutto evidente e prescritto, non gli dà da lavorare, il compito del critico è quello di incaponirsi dove il senso è meno espresso e più nascosto, in quanto il suo lavoro, a ben vedere, non riguarda le persone, ma i testi. Non è questione di invidia, dunque, è questione di utilità funzionale – la sua funzione è quella, a meno che non ne abbia nessuna. Appunto. Infatti nell’attuale indistinzione tra scrittura autobiografica e scrittura letteraria, il critico non appare più utile (si cerca il rapporto immediato con il lettore, come la merce al mercato) e non a caso si parla così spesso di crisi della critica ai giorni nostri.
Insomma, dai presunti difetti nascono cose strane come l’elaborazione del metodo e l’incentivo dell’interpretazione. Saranno felices culpae?
26/07/2925