Il testacoda dell’avanguardia

Uno degli standard con cui viene di solito considerata l’avanguardia è l’esasperata ricerca del “nuovo”. Che sarebbe poi anche un criterio generale di valutazione estetica (l’originalità). Tuttavia, questo motivo non è più tanto centrale nelle avanguardie “sperimentali” del secondo Novecento, e in fondo ancora prima, per esempio nel surrealismo. Nel surrealismo il problema non è tanto distanziare la tradizione – come nei futuristi – quanto attraversarla e contrapporle l’anti-canone degli scrittori cancellati perché trasgressivi. Insomma, la costruzione di una alternativa letteraria non può essere semplicemente liquidatoria (nel qual caso si rischia un plateale “ritorno del rimosso”), ma comporta un necessario atteggiamento critico nei confronti del passato.
Su questo mi ha fatto riflettere il libro di Marco Berisso, Documenti sulla neoavanguardia (edizioni del verri), uscito appena in tempo per rientrare nell’anno anniversario del Gruppo 63. Berisso da esperto medievista oltreché autore in proprio, si occupa di tre autori, Nanni Balestrini, Corrado Costa e Edoardo Sanguineti, mostrando come in ciascuno in modi diversi la tradizione continui ad essere considerata e in particolare quella delle origini letterarie. La prima impressione è stata di un rischio: rimettere questi autori eterodossi nel solco della lirica. Oppure di archiviarli storicamente attraverso l’omaggio della filologia. Tuttavia, l’apparato solido e convincente della ricerca compiuta da Berisso spinge a considerare il libro con più attenzione.

Proprio Sanguineti, intervenendo nel dibattito di quello straordinario convengo che è stato Il senso della letteratura (Palermo 1984) puntualizzava il rapporto tra avanguardia e tradizione con un lucido paradosso:

l’avanguardia è semplicemente quel tipo di operazione letteraria che sa che la tradizione non c’è: è questa l’avanguardia, non è il conflitto contro la tradizione. È quella macchina che sa che la tradizione se la fabbrica lei, si fabbrica i suoi nemici, si sceglie amici e nemici, stabilisce rete di alleanze con i cadaveri e a questo punto comincia a mettersi in movimento e di fronte all’ingenuità della linearità conflittuale sa di essere in conflitto non solo nel presente, ma anche che sta rimettendo in causa tutto il proprio passato, sta inventandosi delle radici (…).

Da questo punto di vista allora, il rapporto con Dante, suggerito ovviamente dal lavoro di Sanguineti in veste di critico, dico la sua tesi di laurea su Malebolge, il Dante reazionario ecc., convalidato dalle indagini sul testo che qui Berisso propone, non è per niente un omaggio a un padre della patria letteraria, è piuttosto la scelta, del polo plurilinguista e espressionista della nostra tradizione lirica.
Più sorprendente, invece, può rivelarsi il ritrovamento di certe fonti nel caso di Balestrini, in quanto il suo lavoro nel “macchinare materiali” sembrerebbe alquanto indifferente alla provenienza dei prelievi. È vero che il romanzo sperimentale di Balestrini s’intitola Tristano e in quel titolo c’è un confronto con l’origine della narrativa occidentale, ma, appunto, come a volerne proclamare, adesso, la chiusura definitiva. Però, effettivamente, Balestrini va alla ricerca di sistemi ricorsivi che possono ricordare certe organizzazioni metriche, per esempio la sestina. «Tra l’altro – scrive Berisso in uno dei suoi saggi – la produzione letteraria delle Origini può fornire, unita certo ad altre suggestioni, qualche spunto per la costruzione del testo (quelli che il nostro chiamava appunto “giochi tecnici”)».
Ciò che si dimostra, a ben vedere, è che il “medievalismo” dell’avanguardia è privo di pietas conservatrice. Il montaggio frantumante di Balestrini, l’ironia di Costa, il “capovolgimento comico” di Sanguineti, sono tutti modi di tenere a distanza qualsiasi forma di ritualità accademica.
Ecco allora che si apre qualche riflessione da fare su questo inopinato “testacoda dell’avanguardia”. In primo luogo è interessante notare come la letteratura delle origini possa apparire dotata di una forte dose di libertà: essa fonda la tradizione, ma per l’appunto mette in prova le forme senza sentirne ancora il peso obbligante. In altre parole, è per l’avanguardia uno stimolo alla “flessibilità” sperimentale, liberante esattamente al contrario della “angoscia dell’influenza” ipotizzata da Harold Bloom, che sarebbe bloccante.
Ma c’è anche un altro aspetto che riguarda da vicino – come adesso spiegherò – anche il Berisso autore di testi in proprio. Dunque, si tratta di un “cambio di paradigma” innestato dal ribaltamento culturale della società dei consumi. In essa la cultura alta (che comprende il prestigio della tradizione ufficiale) viene soppiantata dalla cultura bassa prodotta dal mercato: ed ecco allora che l’avanguardia ha da contestare non la letteratura del passato, ma la mercificazione del presente. Ciò vale già nella temperie del Gruppo 63, nel Sanguineti di Laborintus con il suo magma culturale restituito al nonsenso, ma anche – per dare un altro esempio alquanto calzante – nella prosa di Manganelli. Ancora di più il recupero del linguaggio obsoleto come corpo contundente diventerà notevole negli autori degli anni Ottanta e Novanta (torno alle vicende del Gruppo 93 e della Terza Ondata), tra i quali appunto e esemplarmente si comprende Berisso con il collettivo genovese di “Altri Luoghi”. L’avanguardia retroguardante, a quel punto, non è più un paradosso, ma la soluzione più logica e quasi ovvia.
Il lavoro filologico odierno è dunque interessante in quanto svolto in una linea di ridefinizione dell’avanguardia fuori delle modalità comunemente riconosciute.

14/11/2024

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