Deviare dalla retta via è sempre qualcosa di riprovevole. Così quando la digressione deroga dall’ambito narrativo prefissato e prende una strada diversa cambiando di ambiente, di personaggio o di situazione è probabile che il lettore si interroghi, ma cosa sta succedendo qui? Se quello narrativo è un “contratto”, allora la digressione ne è la rottura, sottoponibile a reclamo.
Non si tratta di una semplice pausa. Indubbiamente anche la descrizione sospende l’azione, ma è giustificata dal fatto che senza di essa non potremmo capire dove i fatti si svolgono o chi ne è l’agente e quindi si configura come un essenziale supporto alla comprensione e aiuto a immaginare mentalmente il teatro dell’azione (sebbene sappiamo bene che i lettori più frettolosi la “saltano”). Anche gli inserti riflessivi o i commenti del narratore possono essere percepiti come un rallentamento e tuttavia anch’essi non sconvolgono l’assetto narrativo, per quanto aprano una finestra su qualcuno che sta considerando la storia dal di fuori. La digressione narrativa fa di peggio, in quanto non si limita a sospendere la linearità del racconto, ma la sostituisce con una linea alternativa. La digressione è a rischio di sperdimento.
La digressione dunque risulta un’arma potente contro il monolinguismo del racconto, come a dimostrare che anche altre storie potrebbero essere raccontate al posto di quella centrale. In un certo senso si potrebbe affermare paradossalmente il contrario di quanto sembra: cioè che proprio la discordanza della digressione è ancor più realistica e verosimile, essendo tutta la vita intrecciata di storie che la narrativa cerca di solito di ridurre ad una unica dimensione principale.
Si potrebbe facilmente attribuire alla digressione un ruolo subalterno, così come per la dissonanza rispetto all’armonia, cioè di dipendenza dal ramo principale: se non ci fosse un filone costituito non potrebbe esserci alcuna digressione. Certamente la digressione non può mai essere iniziale, scatterà a un certo punto e a un altro certo punto tornerà, come si dice, “a bomba”; però la sua caratteristica non è tanto innocua perché genera incertezza sulla prosecuzione: quando avverrà il rientro? In che stato si ritroverà il racconto principale? Non a caso, la digressione è appannaggio soprattutto della letteratura umoristica e vive alla grande nella ironia inventiva settecentesca, erede del Don Chisciotte, come dimostrano i ghirigori del Tristram Shandy di Sterne (vedi l’immagine in evidenza). Quelle volute, dice lo scrittore irlandese, sono il risultato inevitabile di una storia che egli avrebbe voluto condurre «in a tolerable straight line». Ma la plausibile retta non è praticabile: all’inizio del libro VIII, arriva addirittura una sfida:
(…) sfido il miglior piantatore di cavoli (…); lo sfido a piantare i suoi cavoli uno dopo l’altro in linea retta [in straight lines], mantenendo le distanze con stoica esattezza, specialmente se gli accade di trovarsi davanti delle sottane con gli spacchi sdruciti, senza mai, di tanto in tanto, perdere l’equilibrio o deviare in qualche bastarda digressione [into some bastardly digression].
Che poi, a ben guardare, l’obiezione della dipendenza è a doppio taglio: non ci sarebbe romanzo se ci si limitasse alla semplice linearità narrativa: “trama” e “intreccio” non avrebbero quei nomi se non avessero necessità di complicazioni secondarie. Quello che Peter Brook ha chiamato il “desiderio della fine” («Se è vero che il motore del racconto è il desiderio, un desiderio totalizzante, teso a elaborare unità significanti sempre più vaste, è anche vero che il significato si precisa definitivamente soltanto alla fine, e che il desiderio narrativo è in fondo desiderio della fine», Trame, p. 57), deve irrobustirsi e caricarsi grazie a una serie di delusioni, altrimenti perde valore. Gli tornerà utile la dilazione temporale.
A differenza del montaggio, che parte progettando l’alternarsi di elementi eterogenei con brusche interruzioni (ma di ciò altra volta), la digressione guadagna il suo effetto-sorpresa dall’essere della stessa natura di ciò che trasgredisce. Una via di mezzo è il caso di Calvino in Una notte d’inverno un viaggiatore. Quel testo è impostato proprio sul “desiderio della fine” del lettore e della lettrice che sono però fatti precipitare di volta in volta in continuazioni completamente diverse che non possono essere considerate digressioni vere e proprie, anche se mettono ben in luce una funzione di disturbo ironico. La genialità di Calvino sta nel fatto di consegnarsi alla stagione postmoderna della scorrevolezza del romanzo dedicato al “lettore comune” (sorvegliata dal lettore di professione della casa editrice, che non a caso compare come personaggio) eppure di costellarla di inopinati incidenti – una sorta di colpo di coda dell’interruzione sperimentale.
Ma, per tornare alla digressione (altrettanto di quanto essa è obbligata a fare) è bene sottolineare che, perché sia avvertibile come tale, è necessario considerarne l’entità e la portata, insomma è necessario che superi il grado normale quanto a durata e distanza. Se resta breve e abbastanza omogenea, allora non si considera nemmeno. Occorre che vada oltre il sopportabile.
Vediamo un altro caso interessante: il caso di Gadda nel Pasticciaccio. A un certo punto del romanzo il detective inquirente protagonista, il commissario Ingravallo, viene messo da parte e sostituito dai carabinieri di Marino e in particolare dal brigadiere Pestalozzi, centauro motociclista accompagnato dal milite Farafilio dal grosso “boffice”. La vicenda si sposta anche spazialmente dal centro della città ai dintorni di Roma. Forma di digressione, sì, ma alle somme funzionale al decorso del poliziesco. Forse Gadda avrà pensato che ad avvicinare questi margini popolari fosse meglio una coppia comica, piuttosto di un commissario informato della psicoanalisi (per quanto un po’ comico lui pure); o che ci volesse un “centauro” per entrare nell’antro della “maga” Zamira. Fatto sta che arriva ad attribuire a Pestalozzi un sogno veramente bizzarro – verosimile solo per il fatto che nessuno può sindacare sull’inconscio, neppure di un gendarme –: il sogno del topo-topazio, che diventa un inserto davvero straordinario, scatenato in una ridda di significanti e significati che costituiscono una sorta di grottesca chiave dell’intero romanzo. Digressione nella digressione? Inserimento arbitrario? Parentesi surrealista? Precedendo di poco una digressione descrittiva di tipo ecfrastico (l’edicola dei “Due santi”), il sogno del brigadiere comunque sia contiene precisamente la forma della deviazione e della deroga dalla linea prescritta:
Tantoché al passaggio a livello di Casal Bruciato il vetrone girasole… per fil a dest! E s’era involato lungo le rotaje cangiando sua figura in topaccio e ridarellava topo-topo-topo-topo: e il Roma-Napoli filava filava a tutta corsa dietro al crepuscolo e pressoché già nella notte e nella tenebra circèa, diademato di lampi e di scintille spettrali sul pantografo, lucanocervo saturato d’elettrico. Fintantoché avvedutosi come non gli bastava a salvezza della rotolata pazza lungo le parallele fuggenti, il topo-topazio s’era derogato di rotaja.
In generale l’onirico adotta la digressione al suo massimo, fa sparire a scambia i personaggi, impedisce di ritrovare gli oggetti dov’erano, compie metamorfosi di ogni tipo, non solo nell’esemplare passo gaddiano, ma nella comune attività notturna di tutti. Eccoci giunti allora al limite: è possibile un testo che vada di digressione in digressione? Sarebbe ancora possibile in quel caso parlare di digressione?
Nello stato standardizzato e stereotipico della letteratura attuale forse basterebbe anche meno. E però valga l’esortazione: scrittori ancora uno sforzo per essere davvero digressivi!
08/11/2024