Dopo i versi di Geòdi, Tommaso Ottonieri ha pubblicato una nuova raccolta di testi – questa più improntata alla prosa – con il titolo di Cinema di sortilegi (Editore La vita felice). Si tratta di un insieme di scritti elaborati per varie occasioni negli anni recenti (il più “antico” mi pare del 2009) e quindi soggetti a una certa varietà. Tuttavia, come vedremo, sono legati da diverse ricorrenze o “fili rossi” che vogliamo chiamarli. Piuttosto che andare ad analizzare i brani uno per uno, come pure sarebbe legittimo, mi sembra più opportuno usare un metodo sintetico per carcare di estrarre le linee direttrici della ricerca. A dimostrare che la raccolta è un macrotesto come lo intendeva Maria Corti, cioè «una microstruttura che si articola all’interno di una macrostruttura, donde il carattere funzionale e informativo della raccolta; il che è come dire che il significato globale non coincide con la soma dei significati parziali dei singoli testi, ma lo oltrepassa». Questi caratteri comuni potranno essere ricorrenze semantiche (e ce ne sono molte qui) e anche l’atteggiamento non-confessionale (nel senso che, se pure il testo dice “io”, non veniamo a sapere quasi nulla di personale); ma forse l’aspetto unitario maggiore è lo stile: uno stile ampio, ritmato, in qualche modo maestoso.
Vediamone subito un esempio:
Al parallelo che volge sul Circolo, al limite ultimo delle terre abitate, nella spianata dei tizzoni fossili, arretrando sui fondali di ghiaccio di cui sai la lenta agonia di liquefazioni. Ancora ondeggiano i caseggiati dal grande canale d’aria, già emersi da cavità di carboni, in fuga dalla minaccia delle fate morgane, lattescenti picchi, guglie sulla ghiaccia riga cristallina.
Come si vede, c’è una sintassi accrescitiva che procede per addenda e variazioni, non disdegnando soluzioni di criptometrica (con lacerti all’orecchio endecasillabici). Una dimostrazione indubbia di bravura, della quale è opportuno però, non appena dopo averla evidenziata, andare a rintracciare il senso, o meglio i sensi, al plurale. Perché le implicazioni sono diverse e tra l’altro non ha campo qui quella più usuale che collega il “Grande Stile” alla nostalgia di un passato ormai perento.
Prima di tutto, va segnalato l’avvicinamento tra prosa e poesia. Tra l’altro, Cinema di sortilegi è aperto e chiuso da due testi in versi – un po’ come Geòdi conteneva in appendice (reverse) un testo in prosa. Ma la prosa, qui, non è poi tanto prosaica e neppure poi tanto narrativa: è quindi una prosa poetica che indica la tendenza al superamento delle distinzioni di genere; il che segna anche una volontà di sabotare le caselle previste dal mercato.
Da questa intersezione non nascono veri e propri mondi narrativi, ma piuttosto atmosfere, verrebbe da dire “ambienti semantici” con vaghe coordinate che possono andare da uno sfondo mitico a una fantasia intrauterina, dallo scenario del dopobomba all’odissea interplanetaria; e magari può capitare – ma, s’intende, molto sottotraccia – di riconoscere la città di Napoli in una «Partenope silente». Il rifiuto del realismo, che indubbiamente anima questa scrittura, ricorre volentieri alle pratiche dell’incongruo e dell’allotopia; esempio tra i tanti possibili, tratto da Fuga senza fine:
Da una serra di limoni che si apre dalla terra, nel rintocco ringoiato del senso dei ciliegi. Penetrai contorni, per la spinta di una canapa sottile, solca a giri la pietra venata, come un macigno abbandonato sul divano, che da una piega di raso schiude il suo sesso.
Strane operazioni di frutta e fibre vegetali che pervengono a una ancor più strana esibizione sessuale passando per la similitudine del “macigno sul divano”, perfetta mésalliance simile alla “aringa nel salotto” di Savinio. Per giunta, i frammenti (o versetti) del penultimo brano sembrano evocare l’esperienza parasurrealista, di questo tipo:
…….. una zolla divelta, dal fitto di boscaglia, questo cubo scavato a covare il vuoto, tagliare nella terra, friggere nel cavo per scintillìo del suono minerale.
L’emittente è mutevole: l’”io”, come detto, può rivolgersi al “tu”, presentificando il suo proprio obiettivo («E posso percepire allora, per vibrazioni sottilissime che trapassano pareti di mie fibre, la presenza di te, pulsante»), può sdoppiarsi in “lui e lei” e può anche pluralizzarsi nel “noi” (vedi in particolare Dai silenzi delle galassie). Del resto, il testo è ben consapevole della molteplicità del “sé” e ce lo ricorda in più punti: «che cosa è Il sé se non il mucchio, l’intreccio di mostruose commessure»; e: «una foresta di sé che si sovrapponevano senza mai toccarsi». Mutevoli del pari le materie: la terra dello scavo e del «regredire minerale», l’acqua che compare fin dall’inizio come «inerzia di schiume», ma anche come «deriva», in testi che esplicitamente programmano la mescolanza di organico e inorganico.
Gli “ambienti semantici”, tuttavia, non mancano di polarizzarsi in direzioni sorprendentemente dialettiche: arcaico e tecnologico, passato e futuro si uniscono in testacoda singolari – forse neanche tanto, se si pensa agli esiti del tardo capitalismo (o “basso”, come personalmente preferisco dire) insieme global-artificiale e tribal-identitario. A partire dal titolo stesso che abbina al cinema i sortilegi. Da un lato si configura il rito e proprio il sacrificio, evocato in varie occasioni anche con il suo corredo di altari e di lame (soprattutto in Oltre la stele e Cinema del sacrificio – titolo esplicito quest’ultimo); dall’altro lato, la prospettiva si allunga verso l’epoca fantascientifica di una stazione spaziale «remotissima». Anche le devianze lessicali si dispongono su questi assi: arcaismi (per dire: metopa, mosaici) e tecnicismi (chip, scafandro; vicini ai precedenti in Oltre la stele). Ora, se il mondo mitico non è più recuperabile altro che in «riti di mancanza» e nei «culti di dissolvimenti», il futuro nondimeno è periclitante, la specie si appresta alla metamorfosi animale (dappertutto c’è un gran proliferare di «squame») e le comunicazioni risultano sfalsate o interrotte o indecifrabili. Un personaggio isolato vede ormai nell’altro un vero e proprio alieno. Così il “tu” di Oltre la stele (la «stele aliena» che separa i «due corpi immaginali») rivela alla fine le sembianze di un essere difforme, un «tricefalo» con «branchie cremisi». Così come avviati alla trasformazione sono i sopravvissuti della stazione spaziale in Dai silenzi delle galassie.
Nella giuntura tra l’arcaico e il tecnologico cosa resta del presente? Sembrerebbe che, a disdoro delle preferenze della letteratura d’oggi, la realtà attuale sia divenuta una sorta di tabù, ormai prigioniera com’è nell’ovvietà giornalistica giornaliera. Sembrerebbe così, finché non ci si imbatte in Per il mondo di fuori e non lo si tocca, il mondo quotidiano, in una specie di valanga elencativa; ne cito, per economia, solo un poco dell’inizio:
I riassunti trimestrali. Il credito a scalare. Le carte fidelizzanti, le finestre diaccesso, la cessione del quinto, i montepremi del superenalotto quando implodono i casi di riciclaggio del denaro sporco. Le concussioni le percussioni il reddito al nero dei nuovi ricchi. I test nucleari negli atolli, i rientri degli shuttle, il Vuoto del Boötes, la spazzatura dei satelliti, il segnale spezzato. Le ruspe a peso d’oro delle ricostruzioni, i vincitori del superenalotto, invisibili, i tabaccai che parlano alla televisione, i tabaccai che espongono le insegne qui s’è vinto, lo stazionare schermato dei dischi fuori uso. Le speculazioni in borsa, i crolli della borsa, il calcioscommesse sul campionato turco, i mutui protetti le crisi dei subprime le speculazioni immobiliari i buoni fruttiferi scaduti, i libretti ali di farfalla, l’inox il pvc i pannelli di cemento, l’elemento del crimine si libera e prende a scrutare lontano, l’evasione degli ultracorpi, (…).
La lista delle “faccende” pubbliche e private continua per un paio di pagine e passa, mostrando il «tempestarsi dell’esterno» (termine favorito di Edoardo Cacciatore). Un “fuori” opprimente che sollecita la fuga, fuori dal fuori, «sciolto dal mondo» – che fa il paio con l’istanza di rinascita che appare anche in altri punti : «Il tuo nascere, dal fondo, serba il suono d’antiche mescolanze», «per tua voce ritrovare fossile nascenza», «ed è quello che diciamo nascere». Più che altro una fantasia contraddittoria, in quanto la vitalità abnorme si scontra dialetticamente con il negativo, nei temi del collasso e della rovina.
Colorate della crisi stanno la comunicazione e la scrittura stessa. Da ciò i frequenti spunti metalinguistici, come questo, che ben si addice allo stato di alterazione: «un palinsesto di ribaltate segnaletiche, una scheggiata fluttuazione di alfabeti scomparsi: stracci di linee malcerte, a intersecarsi, lungi dal racchiudersi entro l’ombra di alcun codice involontario». Non per nulla, tra le ricorrenze lessicali sono assai numerosi termini come “parola”, “sillaba”, “alfabeto”, “segno”. Che le sillabe prevalgano sulle parole è dato dal fatto che ci troviamo a che fare con «parole rotte» («Così implodono, le parole»): ma a loro volta le sillabe sono «spente», «spezzate», al massimo «inaudite»; del pari gli alfabeti sono per lo più «sconosciuti», i segni «indecifrabili». (E si potrebbe dare un senso metalinguistico anche ad altri due termini frequenti come “cristalli” e “ombra”; vedendo nel cristallo l’organizzazione ritmico-sintattica, nell’ombra l’inconscio fantastico che scombina l’isotopia). Al dunque, questo lavoro eminentemente antirealista, può rivendicare un suo realismo in quanto allegorizza la situazione desolante del presente, dove una scrittura degna del nome non sa bene a chi rivolgersi, a causa della diseducazione della postletteratura. Ormai alle spalle quelle formidabili decostruzioni, così bene analizzate dall’autore nei saggi di Il rovescio di un minuto (il verri edizioni, quasi coevo al Cinema di sortilegi) facendo proprio del cinema lo stigma della modernità più radicale, cosa resta da fare? Sembra rimanere il puro gesto dell’indirizzo: «Ti scrivo dal fondo di una teca, / dal cavo d’una conca» (proprio verso l’inizio, in Da una conca); l’istanza inderogabile di lasciare un segno – magari crudele, per «trafitture» («sulla mia pelle ti scrivo») – nei modi dell’incisione, dell’intaglio (non a caso c’è la stele…). E, se ho parlato di stile, il testo presenta invece il termine etimologico: lo stilo e conclude appunto, nel corsivo posto al termine, con «l’aguzzo stilo».
Voce che continua a parlare, almeno «[f]inché ci sarà segnale». Ostinazione irragionevole e però proprio perciò eminentemente dissipatoria. Stile che si fa – secondo un termine che compare un paio di volte – verbigerazione.
12/10/2024