La retorica può vantare senza dubbio una straordinaria resistenza nel tempo: è un insieme di termini provenienti dall’antica Grecia e tuttora utilizzati nel mondo intero, uno strumentario sostanzialmente immutato da Quintiliano a Lausberg, passato da un manuale all’altro con i relativi ritocchi, ma in fondo con la medesima logica. Si tratta di un repertorio tecnico indispensabile per la critica letteraria, per quanto i critici spesso preferiscano portare come pezze d’appoggio le proprie impressioni personali o emettere perentori giudizi di valore, tuttavia qualche riferimento a metafore, metonimie, ossimori e via dicendo lo devono pur fare (e qualche volta magari anche sbagliando di indicazione pertinente…). Per chi si occupa di letteratura conoscere le figure retoriche è un po’ come possedere l’abc del computer per chi si mette alla tastiera.
Sappiamo bene che la retorica è una faccenda d’ampio respiro e che il semplice elenco delle figure è una “retorica ristretta”. Tuttavia già qui, solo a parlare di “figure” e di “traslati”, cominciamo a ricevere delle notifiche importanti: con “figura” veniamo sapere che il linguaggio è capace di costruire con le parole delle sue proprie immagini, con un valore iconico che si aggiunge alla semplice funzione informativa; con “traslato” ci viene indicato il lavoro di spostamento e quindi siamo preparati ad affrontare parole e frasi che possiedono un supplemento di dinamismo. Insomma, la retorica modifica sia la forma che la forza.
In ogni caso, si tratta di tecnica: e per questo la retorica è stata combattuta dalle poetiche romantiche della autenticità e “retorico” è diventato l’attributo di un oratore ampolloso, vacuo, che dice frasi fatte. Eppure, quando si parla, retorica c’è, c’è sempre: il punto è vedere di quale retorica si tratta.
Il libro Figure retoriche, pubblicato di recente dall’editore D’Ambrosio, si presenta come un rinnovato compendio, però un po’ diverso dall’usuale. È stato curato da Marisa Napoli, sulla base di un precedente lavoro con Silvana Ghiazza, rinnovato ora in collaborazione con Alice Pareyson; insieme hanno compiuto una consistente revisione del parco-esempi, che di solito passava indisturbato da un vecchio a un nuovo manuale. Uno sforzo innovativo con conseguenze soprattutto su due versanti:
1) il riscontro di tutte le figure (sui significanti o sui significati che siano) anche nell’ambito dell’arte e delle immagini della comunicazione di massa. Insomma, un rinvenimento delle figure (in senso metaforico) nelle figure (in senso stretto), che per altro si avvale di una grafica ben studiata, tale da far concorrenza all’ipertesto;
2) l’allargamento delle citazioni non solo ai vari climi culturali, ma anche ai tempi recenti e in particolare alla produzione di avanguardia, questo del resto seguendo il progetto editoriale che l’editore D’Ambrosio persegue con encomiabile testardaggine nel proporre d’abord et toujours le scritture radicali in atto.
Se il primo punto serve ottimamente a mostrare la valenza manipolatrice della retorica, ad esempio nelle immagini pubblicitarie, il secondo vale al contrario a indicare una retorica altra, il tentativo difficile di deviare la retorica dall’interno. Sempre retorica c’è – come ripeto – ma le metafore dell’avanguardia sono e non sono le stesse dei classici. Occorre considerare attentamente funzione e contesto.
Scrive Marisa Napoli nell’introduzione al volume:
Questo testo, dunque, intende documentare quanto le figure retoriche, nell’uso che ne ha fatto e che ne fa l’Avanguardia, abbiano in sé, in contrasto col linguaggio pubblicitario, un forte potere creativo poiché permettono di immaginare e proporre nuove visioni della realtà, secondo diversi punti di vista.
E rincara, in sede di postfazione:
La finalità di questo libro è far vedere come gli esiti della retorica classica, soprattutto nell’ambito delle Avanguardie (dall’Avanguardia storica dei primi del ‘900, ai Novissimi degli anni Sessanta e alla Terza Ondata degli anni Novanta, fino alla ricerca attuale), siano generati dagli obiettivi, che questi movimenti si sono posti, di critica dei sistemi dominanti e, tra essi, anche e soprattutto il sistema linguistico e retorico. La scelta peculiare di esempi verbali e iconici vuole dimostrare come l’uso particolare che ogni autore fa delle soluzioni retoriche, a livello sia verbale, sia iconico, si concretizzi in maniera diversa dalla tradizione, tanto da scardinarla.
Questioni di rilievo si aprono anche negli scritti in appendice, tra i quali ricordo il saggio di Gaetano delli Santi sull’allegoria. L’allegoria già si trova inventariata in ordine alfabetico proprio all’inizio del libro; ma quella è l’accezione tradizionale di una puntuale e singola allegoria che indica altro da ciò che rappresenta (un vecchio rappresenta il Tempo e così via). Nell’ottica dellisantiana, invece, l’allegoria è una modalità complessiva che lavora all’interno del testo creando contrasti e contraddizioni significative. Cioè:
il testo-sistema dell’allegoria scava sempre in profondità, e ciò che porta in superficie costringe a realizzare un movimento accidentale di tutti i movimenti emersi dal corpo di un incessante agglutinamento di linguaggi proveniente dagli stati percorribili in un ambiente in cui tutti i linguaggi in esso contenuti interagiscono in conciliazione, anche se inconciliabili per via della loro diversità.
Sicché l’allegoria entra a far parte di una costellazione di modi alternativi, insieme alle nozioni di plurilinguismo, barocco e deformazione espressionista.
Dunque Figure retoriche è un testo di base, che offre all’insegnamento della critica un indispensabile strumento, un prontuario di procedimenti distintivi e caratterizzanti per l’analisi. Ma in più offre parecchi stimoli di riflessione: infatti il discorso della retorica si allarga da tutte le parti, ben al di là della pratica letteraria specifica – come sapevano bene i nostri antenati: “si fanno più metafore in un giorno di mercato che in un anno di Accademia”. In fin dei conti, potremmo dire che Figure retoriche è una sorta di “trattato della comunicazione”, teso a sfatare la “fallacia spontaneista”, mostrando che tutte le nostre espressioni, personali o meno, sono costruite mediante un linguaggio di effetti codificati. Lo dice bene, con la consueta verve paradossista, l’aforisma di Franco Falasca collocato nella pagina iniziale degli esergo:
non si dice ciò che si pensa, si pensa ciò che si dice, e si dice ciò che ha più probabilità di sembrare vero, con la sintassi gergale che trascina il discorso e il relativo compiacimento.
03/10/2024