L’ispirazione: siamo ancora a questo punto?

Mi è capitato spesso in passato, negli incontri nelle scuole e nel dialogo con studenti e professori, di imbattermi nel culto dell’“ispirazione”. In pratica, questo argomento: un testo poetico è valido se deriva da un’ispirazione. L’ispirazione è la misura del valore: se essa manca, il testo è debole o insignificante.
Sarebbe stato facile esprimere semplicemente contrarietà a queste asserzioni. Per esempio, affermando che sono vecchie come il mondo e quindi stantie; oppure che appartengono a un armamentario mistico e quindi valide solo per chi ci crede. La teoria dell’ispirazione si trova pari pari in Platone e si può riassumere così: l’autore non è l’autore, ma semplicemente il portavoce di una forza soprannaturale (la Musa) che soffiando come un vento “spira”, per l’appunto, attraverso l’autore umano. Il poeta, insomma che è ispirato, lascia entrare in sé quest’aria superiore che lo invade e determina la sua propria espressione. La cattiva poesia, in tale contesto, sarebbe quella di un poeta privo di ispirazione, disdegnato dalla Musa (si sa che lo spirito soffia dove vuole lui), che pertanto non può che suonare a vuoto quando si sforza di imitare dall’esterno i tratti dei beniamini del sacro fuoco.

Chiaro che questo non dimostra la fallacia della nozione di ispirazione, perché un’ideologia conservatrice (quella che – dice Rossi-Landi – si fonda sul passato) può tranquillamente accogliere sia la persistenza temporale che il misticismo di fondo. Non resterebbe che schierarsi in pro o in contro. Ma, se respingere certo si può, si può ugualmente riflettere. E utilmente contro-argomentare. Tralascio il punto se convenga all’autore essere destituito dal suo ruolo di soggetto, in quanto probabilmente il fatto d’essere prescelto è stigma da considerare maggiore. Più efficace, però, è il ragionamento che, non essendo possibile ovviamente entrare nell’interiorità dell’autore e verificare davvero il suo stato di “possessione”, quindi l’ispirazione verrebbe riscontrata giocoforza a posteriori e allora sarebbe una sorta di tautologia: data una poesia che si ritiene valida, lì ci sarebbe stata a monte l’ispirazione.
Lasciando ora perdere l’origine soprannaturale, è pur sempre possibile usare l’ispirazione come una misurazione dell’intensità. È la famosa concezione dell’artista che non riesce a trattenersi (“Plaf plaf”, diceva ironicamente Gadda) e quindi scrive, come suol dirsi, “di getto”. La minore distanza tra la testa e la mano, tra l’ideazione e la stesura, sarebbe (non posso che continuare a usare il condizionale, non condividendo) la controprova della presenza di una ispirazione prorompente. Addirittura la si potrebbe calcolare con il cronometro in mano… l’immediatezza sarebbe il suo preciso sinonimo. Peccato però che di tali “tempi tecnici” non è detto che abbiamo comprovata notizia. Solo diari ben datati ed espliciti a riguardo ce ne potrebbero assicurare, altrimenti niente, pure l’annotazione in calce potrebbe non essere totalmente veridica. Quello però di cui possiamo avere oggettiva conoscenza, come ben sanno i critici delle varianti, sono le correzioni: averci ripensato, che però varrebbe in negativo, come prova di ispirazione debole, bisognosa di labor limae, proprio perché scarsa. Credo che, se il metro fosse questo, dovremmo bocciare parecchi dei nostri rinomati capolavori. Forse tutta la modernità in generale, con la sua progettazione perplessa, la sua lenta approssimazione all’opera, perfino il non-finito, il pieno di tormenti e di irrisoluzioni (scriveva Valéry: «la Perfezione è lavoro»). A meno che non salvassimo le correzioni considerandole non altro che ispirazioni successive; solo che così torniamo al punto di partenza.
In quei dibattiti con gli studenti, io di solito concedevo: certo, avete ragione, l’ispirazione esiste, è il venire in mente. Benissimo. Qualcosa, a un certo punto, viene in mente all’improvviso. Su questo non c’è dubbio, e magari non vale solo per la poesia, ma anche per la scienza, per l’amore e per la banalità della scelta di un capo di vestiario. Sulla base di qualche circostanza esterna, scocca un collegamento che prima restava inerte. Una scintilla direbbe, un patito del misticismo di cui sopra. Su questo siamo d’accordo. Il punto è che non significa niente: il “qualcosa” che è venuto in mente non è validato da questo fatto, estremamente comune. Il qualcosa, qualunque cosa sia, va sottoposto a verifica o in ogni caso deve essere accolto e riconosciuto per proprio. Che questo avvenga subito o a notevole distanza di tempo (ci sono certe idee che un artista può covare anche a lungo, ve lo garantisco), non fa nessuna differenza per la ricezione. Insomma, l’autore ha da interrogarsi: è proprio questo qualcosa che voglio dire? E che significato ha rispetto agli altri ai quali voglio dirlo? Vale la pena di metterlo su carta e così oggettivarlo? L’ispirazione esiste, sissignori, ma è, per l’appunto, il problema e non la soluzione. La cattiva poesia, insomma, non è affatto quella che difetta di ispirazione, bensì quella che ha accolto una ispirazione difettosa. Se si fa funzionare, come si dovrebbe, lo “spirito critico”, potremmo anche avere un vento che “spira” nella direzione contraria. Non possiamo sapere con certezza come siano andate le cose, perché – come dicevo – non si può entrare nell’interiorità di uno scrittore, però è molto probabile che ogni autore ne abbia avute molte di ispirazioni e che ne abbia realizzate soltanto alcune: dietro un’opera, suppongo, c’è un cimitero assai ampio di ispirazioni scartate.
Non sono in grado, non frequentando i social, di sapere se il tenore di queste vecchie discussioni sia ancora attuale, ma temo proprio di sì. Sento il senso comune poetico che impazza ormai senza argini di sorta… Siamo ancora a questo punto, con il pregiudizio dell’ispirazione? Molto meglio sarebbe lasciar perdere l’origine, venga pure l’idea da dove vuole, come vuole e quando vuole, ma la questione è poi che cosa se ne fa. In altre parole: ispirare è necessario (se no si muore), ma attenzione all’espirazione!

27/09/2024

1 commento su “L’ispirazione: siamo ancora a questo punto?”

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