Tra le star internazionali della teoria, Slavoj Žižek è uno dei più prolifici, tanto da rendere difficile seguirlo in tutte le sue performance – e anche, non ultimo, trovargli posto in libreria dalla parti della lettera “Z” che ha ormai riempita… È anche uno dei più estrosi: vitando ormai l’andamento trattatistico in odio alla sistematicità, il territorio del saggio – già di per sé genere di confine – viene ulteriormente virato verso zone impreviste, per cui accanto ai giganti filosofici può spuntare, ugualmente probatorio, un film di ultima generazione. Una saggistica Pop, uno stato argomentativo davvero fluido pieno di variazioni e digressioni, piacevole da seguire ma scomodo da riassumere, anche a conoscerne i presupposti (Hegel, Lacan fra tutti), hai voglia a ritornare sui suoi passi, ma non se ne rintraccia l’affermazione univoca.
Un suo lavoro recente – non dico l’ultimo pubblicato in Italia, perché magari nel frattempo… – è questo sulla libertà, intitolato Libertà, una malattia incurabile, edito da Ponte alle Grazie con l’accurata traduzione del poeta e scrittore Vincenzo Ostuni.
Come orientarsi in senso alternativo, se non rivoluzionario, nella odierna contraddittorietà generale tra tecnologia sofisticata (fino ai timori di una intelligenza artificiale che ci sovrasti) e il ritorno di ideali e valori tradizionali sbandierati in fondamentalismi con pretese comunitarie? Žižek se la gode a complicare ulteriormente le cose come quando, discutendo del senso delle criptovalute parla del sovrapporsi di un “anarco-capitalismo” con un “tecnofeudalesimo” che starebbero sfociando nell’«anarco-feudalesimo». Per forza di cose, in queste fughe di specchi, diventa necessario esercitare il pensiero paradossale. La dialettica del rovesciamento. Facendo attenzione a non rovesciare il pensiero dalla parte sbagliata. Spuntano nel libro alcuni fenomeni contemporanei sui quali anch’io – pur terraterroso quale sono – concordo: l’avvento del consumo come merce nella «mercificazione dell’esperienza» (il che comprende la colonizzazione della cultura); e il cambiamento di stato dello Stato, che da nemico da abbattere si è trasformato nell’unico controllo del potere del mercato («come fondamentale difensore del bene comune»).
L’autore, nel suo argomento principale che riguarda la libertà prende le mosse dall’ambiguità del termine che in lingua inglese viene espresso con due distinti vocaboli freedom e liberty, il primo indicante l’apertura del poter fare, il secondo i limiti. Il titolo originale recita Freedom, ma subito aggiunge che questa nostra massima aspirazione è da considerare a disease without cure. Se andiamo dietro alla spinta di una patologia, ecco allora necessario chiamare in soccorso la psicoanalisi e tutto il libro – e, in fondo, tutta l’opera di Žižek – sono percorsi dalla sua applicazione non solo a livello del singolo, ma al livello collettivo della cultura e dell’ideologia. Già, l’ideologia. Oggi intesa soltanto come partito preso testardo, è invece ben riconosciuta da Žižek e non da ora (The sublime object of ideology è, se non erro, il suo primo libro in lingua inglese) come il luogo in cui il pensiero si deve necessariamente districare. Con un fondamentale passaggio, rispetto ai predecessori (Marx, Lukács e compagnia), un giro dell’ideologia che qui viene indicato (in termini per l’appunto psicoanalitici) come passaggio dal sintomo al feticcio:
Oggi, l’ideologia funziona sempre meno come un sintomo e sempre più come un feticcio. Il suo funzionamento sintomatico rende l’ideologia vulnerabile alla prassi della critica dell’ideologia: nella classica modalità illuministica, quando un individuo catturato dall’ideologia comprende i meccanismi nascosti dell’inganno ideologico, il sintomo scompare, l’incantesimo dell’ideologia si rompe. Nel funzionamento feticistico, l’ideologia funziona secondo una modalità cinica, che prevede una distanza da sé stessa — ovvero, per riprendere la vecchia formula della ragion cinica di Sloterdijk: «So che cosa sto facendo, eppure lo faccio».
L’inganno spiritualista è superato dal cinismo pragmatico (è lo stesso che dire che il mercato sopravanza lo Stato). In questo gioco, l’illusione più forte è quella di esserne esenti o di mirare a uscirne fuori: «non esiste nulla al di fuori della Matrice simbolica»; e ciò stabilisce la discussione con il ciclo cinematografico di Matrix, che qui tocca in appendice il capitolo della Resurrection, con ancora più critiche del solito. L’idea di essere liberi è il modo migliore per sprofondare nella dipendenza, «l’illibertà più pericolosa è quella che sperimentiamo in forma di libertà». Un corollario molto polemico tocca al wokismo e alla cancel culture nelle quali, da manuale, «la fluidità non-binaria coincide con il suo opposto» e sfocia in modalità rigide e dogmatiche.
Personalmente trovo che, ancorché frastornante, la lettura di Žižek sia sempre utile perché aiuta a riflettere. In particolare, in questo libro, trovo tre punti molto interessanti a proposito di universalità, avanguardia, comunismo.
L’universalità, dopo tanto localismo ed elogio della differenza, viene richiamata in servizio a vantaggio del pensiero “radicale”:
All’affermazione nominalista secondo cui non esiste una pura e neutra universalità, e ogni universalità è catturata nel conflitto di specifici modi di vivere, bisogna rispondere: no, oggi sono i particolari modi di vivere che non esistono in quanto forme autonome di esistenza storica; l’unica vera realtà è quella del sistema capitalistico universale. Per questo motivo, in contrasto con le politiche dell’identità, che si concentrano sul modo in cui ciascun gruppo (etnico, religioso, sessuale) dovrebbe poter pienamente asserire la propria specifica identità, il compito ben più difficile e radicale sta nel garantire a ciascun gruppo il pieno accesso all’universalità.
In questa prospettiva la “lotta ecologista” appare come «l’ultima (e più universale) della serie di lotte di classe emancipatrici», ma forse proprio per questo non riesce a mobilitare i singoli interessi.
Quanto all’avanguardia artistico-letteraria, il suo paradosso è il dispiacere annesso alla sua negatività. Žižek riporta il curioso aneddoto delle celle, durante la guerra di Spagna destinate ai franchisti, arredate secondo principi modernisti per indurre disperazione nei prigionieri. Come si può spiegare questa mancanza di piacere (domanda che spesso io pure mi sono fatta)? Risposta del nostro autore:
Chi sostiene che il senso della bellezza e del piacere artistico derivi dalla nostra natura denuncia il «desiderio di distruggere la bellezza» del modernismo in quanto momento ideologico dell’élite globalista. In un senso del tutto ingenuo, sollevano un punto apprezzabile: l’arte moderna riproduce l’orrore, l’angoscia e la dissonanza che caratterizzano la nostra esistenza sociale. Ma la domanda da porre è questa: perché riprodurre angoscia e orrore nell’arte è sovversivo, e non una semplice mimesi che alimenta l’alienazione dell’attuale vita sociale? La risposta è semplice: il solo fatto di esprimere angoscia e dissonanza è un atto di liberazione, che ci consente di guadagnare una certa distanza dall’ordine esistente.
E ultimo, ma non d’importanza, il comunismo. È un nome che spesso Žižek non si è trattenuto dal fare, liberandolo – come anche in questo libro – dalle realizzazioni storiche del Novecento. Con una precisazione in più, direi: non solo alla continua rivoluzione del capitalismo dovrebbe opporsi un comunismo “controrivoluzionario”, ma ciò significa anche prospettare una sorta di controllo da parte del “diritto” e della “giustizia”. Leggiamo direttamente questo punto particolarmente paradossale e non a caso conclusivo:
Qui interviene quella che ho chiamato controrivoluzione, in quanto componente della vittoria di un movimento emancipatore: naturalmente non esiste un diritto neutro, una giustizia neutra, ma questo non implica automaticamente abbandonare ogni nozione di universalità che trascenda la lotta tra «noi» e «loro». Va formulata una nuova universalità che, nel favorire gli sfruttati e i dominati, lo faccia nella forma di un’universalità neutra, garantendo in tal modo che il nuovo diritto ponga un limite anche al movimento emancipatore. Nel conflitto tra «noi» e «loro», tale diritto deve anche impedire che l’agente emancipatore, una volta conquistato il potere, lo eserciti in misura illimitata – il diritto deve porre vincoli anche alla «nostra fazione». In termini più chiaramente politici, è per questo motivo che il diritto dello Stato dovrebbe prevalere sul «nostro» partito: «noi» dobbiamo combattere per l’universalità, per la nostra egemonia entro lo spazio dell’universalità, senza identificarci tout court come organo di questa universalità.
Guarda un poco cosa si arriva a pensare dentro il nostro orizzonte catastrofico!
10/04/2024