La neoavanguardia secondo Angelo Guglielmi

Nel trascorso anno 2023 mi ha stupito che l’anniversario del Gruppo 63 sia passato senza le polemiche che di solito l’accompagnavano. Luoghi comuni: si dice che non abbia fornito grandi opere; che fosse un modo per far carriera da parte di scrittori scarsi; che sia ormai lontano le mille miglia; che abbia contribuito a rovinare la letteratura fino ai bassi livelli di oggi… Non credo che queste opinioni negative abbiano smesso di circolare, ma può darsi che, effettivamente, a distanza di sessant’anni, ci si sia convinti che la neoavanguardia sia ormai passata in giudicato e convenientemente sepolta riposi in pace, inquadrata nella sua casella di storia come un incidente di percorso.
Ancora viva, invece, essa appare nelle parole di uno dei fondatori, Angelo Guglielmi, che la rievoca con allegria e brio nel libretto di Aragno, L’avanguardia in Bermuda, curato dal giornalista Carmelo Caruso e uscito poco dopo la scomparsa dell’autore. Un Guglielmi in ottima forma intellettuale, che gode ancora dello sconcerto provocato all’epoca nella compagine ufficiale della nostra letteratura e conserva ottima memoria dispensando particolari inediti, soprattutto sul convegno palermitano iniziale.

Principalmente, Guglielmi ribadisce quello che aveva affermato fin dall’inizio, cioè che l’avanguardia “nuova” non era in realtà un’avanguardia: «Noi eravamo sperimentali». E questo vale a far cadere tutte le riprovazioni sul senso militaresco e aggressivo che la parola “avanguardia”, a torto o a ragione, porta con sé. La differenza è spiegata così:

Molti sono dell’opinione, ancora oggi, che gli autori del Gruppo ’63 non abbiano inventato nulla e che il loro tentativo non fosse altro che una scimmiottatura dell’avanguardia storica di primo Nove-cento. Lo rifiuto. Non è così. L’avanguardia storica ha rovesciato il linguaggio, chiedeva la sua abolizione. I baffi che Duchamp metteva alla Gioconda erano irrisione ed eversione. Noi? Noi ci eravamo dati la missione di “riavviare” il linguaggio, individuare nuove modalità espressive.

E trovo questa caratterizzazione del secondo Novecento molto giusta. È vero che c’è ancora un’istanza polemica che muove «questo incendio che per una manciata di anni ha seminato il panico nel mondo della letteratura»; tuttavia è evidente la che forma stessa del suo manifestarsi – la forma-convegno, intendo dire – rimanda a una propensione critica, per altro dimostrata proprio dalla presenza nella compagine di un critico come Guglielmi. È il metodo del dibattito:

ciascun scrittore si faceva avanti e cominciava a leggere libri (romanzi o poesie) che aveva appena pubblicato e del nuovo a cui stava lavorando. Era quasi una critica in diretta. Ed era un inedito. Lo scrittore si metteva a nudo, accettava il duello, la stroncatura come l’applauso. Prendeva nota dei suggerimenti.

E proprio nella rievocazione del convegno di Palermo, nell’ottobre del 1963, la scrittura di Guglielmi assume un tono tra l’epico e il divertito:

Diciamo che il 3 ottobre del 1963 tra le stanze dell’hotel Zagarella eravamo circa una trentina, chi sceso dal nord, chi venuto da Roma, chi dalla stessa città come lo scrittore palermitano Michele Perreira. Ma poi ci sono stati gli imbucati e il più illustre era Alberto Moravia.

Ricordando, insieme alle accese discussioni, anche i bagni di mare e i vari contorni e contesti.
Quanto all’orientamento del dibattito, si può affermare che il Gruppo 63 non avesse leader, per quanto in questa sede Guglielmi suggerisca la supremazia di una maggioranza sanguinetiana («La mia era una piattaforma di minoranza. La gran parte del gruppo sposava la linea Sanguineti»). Che però sarebbe una leadership un po’ strana, in quanto avrebbe lasciato sempre la sede introduttiva proprio a Guglielmi insieme con Barilli, per riservarsi solo interventi di interdizione. Mah… Io che ho studiato parecchio la materia trovo che Sanguineti non avesse poi molte coincidenze nel gruppo sulla sua linea marxista (alla fine, forse, il solo Di Marco).
Un altro punto cui è rivolto l’autore è a contestare l’idea della “illeggibilità”, citando spesso e volentieri a riprova il nome di Arbasino. La nozione di sperimentalismo non deve far pensare a un atteggiamento teso a ridurre il testo a un ben oliato meccanismo: lo stesso Guglielmi non è un critico strutturalista che sciorina una strumentazione dai nomi difficili, è piuttosto un critico di gusto, spesso propenso alla metafora, senonché il suo gusto è un gusto alternativo, mosso, secondo le sue stesse parole, da «una grande passione». E il suo “realismo” non è affatto quello che ancora di recente è stato richiamato in servizio: è un realismo di tipo affatto particolare, che vuole recuperare una sorta di “stato nascente” della realtà, al di sotto di tutte le coperture culturali e ideologiche, secondo il modello-Gadda a lui particolarmente caro.
Allora, quale “illeggibilità”? Illeggibile sarà semmai il romanzo di consumo, fatto di linguaggi piatti e di trame scontate!

26/03/2024

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