Ugo Perolino, nel suo libro La ricerca poetica da Quarta generazione a «Officina», editore Carabba, ci offre un quadro molto interessante della evoluzione letteraria negli anni Cinquanta del Novecento. Si tratta di un decennio forse meno brillante dei successivi Sessanta, forse ancora un po’ provinciale e tuttavia costituisce la transizione che porta a quelle soluzioni e a quel dibattito più avanzato. In particolare, al centro del periodo c’è la svolta “sperimentale” rappresentata dalle due riviste principali, “Officina” e “il verri”, che aprono – anche proprio con un cambiamento di termini – una nuova stagione. E c’è, d’altra parte, la crisi dell’impegno dopo il trauma dei fatti di Ungheria, che suggerisce un po’ a tutti una posizione più defilata e meno “organica” nei confronti della politica, da Barone rampante, per usare la felice allegoria di Calvino.
Scrive l’autore, proprio a inizio del libro:
Nel corso degli anni Cinquanta maturano nella poesia italiana istanze di rinnovamento del linguaggio, degli schemi formali, dello spettro tematico, che creano le condizioni per una progressiva disarticolazione della grammatica novecentista e della koinè ermetica. Anche la caduta della tensione civile e oratoria che aveva innervato le poetiche del realismo e dell’impegno, nel profilarsi di nuovi stili di vita e modelli di consumo, concorre a generare una tensione sperimentale che investe lessico, sintassi, discorsività poetica, con marcate aperture verso l’italiano della comunicazione di massa, l’oralità, le neolingue tecnoscientifiche.
A ricostruire l’atmosfera del periodo non ci sono solo le già nominate riviste di punta, ma contribuiscono anche le antologie. Attraverso di esse, Perolino può notare, insieme alle insorgenze del “nuovo”, le strategie di contenimento, magari dove s’imposta la scelta in chiave generazionale (la Quarta generazione, appunto), oppure dove si crea continuità con la tradizione precedente, come nelle antologie di Falqui (La giovane poesia) e di Quasimodo (Poesia italiana del dopoguerra). Nel quadro così attentamente ricostruito, spiccano giustamente la figura di Pasolini e i suoi interventi su “Officina” per definire e allargare l’area “neo-sperimentale”. Bisogna dare atto a Pasolini di avere scelto il termine giusto (semmai, si può rimproverargli di non avervi insistito): checché se ne dica, e per quanto oggi si preferisca parlare di “ricerca”, continuo a ritenere che sperimentalismo sia una formula positiva, che unisce all’idea di un esito non già previsto il sostegno tuttavia di un progetto, unendo l’estro all’intelletto. Sia come sia,
La ricognizione del campo neo-sperimentale – sottolinea Perolino – ha il pregio di dare un nome a quelle spinte innovative, ancora prive di una consapevole base teorica, sotterraneamente attive nella poesia degli anni Cinquanta (…), terreno di contaminazioni e ibridazioni che non esclude manierismi, estetizzazioni, riformulazione delle grammatiche espressive ermetica e neorealista.
La stessa scrittura di Pasolini in quel periodo attesta di questo sforzo rinnovatore, non più legato ai modelli precedenti di tipo lirico o realistico. In fondo, il rapporto con Gramsci, che Perolino rintraccia nella poesia (ovviamente Le ceneri) e nello stesso tempo nella saggistica pasoliniana, dimostra anche in questo caso un riferimento politico tuttavia recuperato, per così dire, diagonalmente, non attraverso l’accettazione “organica” della fede nel Partito.
Altri punti interessanti del libro sono le pagine dedicate al Cuore zoppo di Alfredo Giuliani, a documentare il percorso di formazione di un autore destinato a diventare il capofila dell’avanguardia novissima; e anche la riscoperta di Giancarlo Marmori (come poeta, ma anche come narratore), personaggio fuori dagli schemi che sarebbe davvero utile ristampare e rileggere con attenzione critica.
Bene ha fatto Perolino ad aggiungere al suo lavoro di ricostruzione storica delle poetiche e delle tendenze, una piccola antologia di testi, in cui il lettore potrà confrontare il discorso critico toccando con mano componimenti poetici di non facile reperimento, come ad esempio le poesie de La cantica di Leonetti e di Dopo Campoformio di Roversi. Proprio questi due sodali di Pasolini su “Officina” a me sembra dimostrino, negli scarti interni e nelle stesse dimensioni (le strofe lunghe di Roversi) l’intenzione di forzare ogni residuo di armoniosa composizione. Forse si potrebbe dire che la fine dell’“intellettuale organico” porta anche ad una crisi dell’“organicità” del testo poetico-artistico, che verrà poi radicalizzata nel decennio successivo.
09/05/2923