VITO RIVIELLO

LA POESIA COMICA NEL PUZZLE DELL’IO

Vito Riviello fa parte di quello che io chiamo il “periodo di mezzo” della nostra poesia contemporanea. È uno di quei poeti, cioè, emersi sul finire della temperie di gruppo della nuova avanguardia, che non si sono arresi alle nuove mode neo-liriche, ma hanno continuato a portare avanti una poesia “di ricerca”, ovvero autocritica, demistificante, fuori-norma, attraverso le inospitali e regressive stagioni degli anni Settanta e Ottanta, resistendo nella loro alterità poetica e anticipando talune direzioni e ragioni della problematica della “Terza Ondata” dei più giovani, fino ad arrivare ai tempi d’oggi. Uno sperimentalismo, però, com’è d’obbligo in condizioni difficili, legato a strategie di resistenza e a linee individuali: e quella di Riviello è stata la linea del comico, identificabile nel prosaico dell’andamento poetico (tenuto sempre nel “sottotono” di una lingua colloquiale e di una metrica senza vertici) e nel gioco con e sulle parole. Che è una linea che viene da lontano e che forse — rispetto al caos di alcune avanguardie — potrebbe apparire meno sconvolgente, ma che possiede una radicale potenza di riduzione del senso comune e di allenamento all’agilità mentale. Non c’è solo il comico, però. E non solo il gioco verbale. Il titolo, che Riviello ha apprezzato al punto da apporlo alla sua raccolta complessiva, è Assurdo e familiare: un titolo che, rievocando l’unheimlich freudiano, fa scendere gli strumenti dello spaesamento e del motto di spirito ben dentro i gangli della “stranezza quotidiana”.
Anche in questo suo nuovo libro, Riviello ci propone giochi tecnicamente agguerriti e sollecitanti scarti linguistici. E dove la discorsività anti-suggestiva non esclude i rimbalzi delle rime, che acquistano il sapore di ironiche ossessioni poetiche; e dove il testo stesso si costruisce attraverso l’eco della somiglianza sonora, in una sorta di schidionata omofonica (come in Comò cometa, che unisce — per virtù di paronomasia — la mobilia più borghese che c’è con la cosmicità astrale della stella che ha per di più una  sfumatura di avvento evangelico; passando per il “come” e, doverosamente, per il “comico”); e dove, poi, ancora, ritroviamo in gran forma il Riviello “battutista” e farceur, nelle sue vesti di guitto d’avanspettacolo (sulla linea di un  “teatro di varietà” rivisitato come i futuristi avrebbero voluto), soprattutto nei fuochi artificiali della sezione Neokuku. Ne spara di buone, il nostro “nipotino di Totò”, specialmente sulla falsariga delle più viete frasi fatte (annoverando, tra l’altro, un «dammi pure del thé»; i «mascalzoni calati»; «la storia non si fa con i se / ma con i…mah!»). Ancora, è possibile rinvenire l’aperta indicazione del riso come imperativo indifferibile («Ora tu devi ridere, sempre») e del suo innesto nelle istanze corporee, nella Parola biologica, una parola dunque materiale e connessa alla materia, se va fatta «scivolare… su tutto il corpo». E viene in chiaro la funzione snebbiante e curatrice del “linguaggio da ridere” — mi verrebbe da scrivere: la funzione pataclinica — come antidoto ai fumi della malinconia e della nostalgia.
Tuttavia, ai giorni nostri, il comico non è più lo stesso. Non è più il sano esercizio dell’abbassamento popolare cui pensava Bachtin. È diventato superficiale e volgare. Un comico-merce, che si vende in pillole e in serie, all’interno della complessiva strategia di intontimento e di istupidimento delle masse-bambine. Dove dilagano i “nuovi comici”, Riviello, che il comico se lo è praticato e se lo pratica su ben altri registri di demistificazione e di complessità, è portato a muoversi in altre direzioni, onde divergere dal conformismo dominante. La verve inventiva, da un lato, e il tono discorsivo, dall’altro (che sono i caratteri propri della poetica dell’autore) si trovano a inclinare, qui, anche verso i territori onirici del sogno, oppure verso una meditazione nichilista che sembrerebbe al primo sguardo, stante la messa in evidenza del “vuoto”, agli antipodi della pienezza corporea. Dunque, il sogno: magari un sogno “barocco” che prende il posto del ricordo («Ora esorbitavano come coralli / i tuoi sogni precoci, barocchi, / ai rintocchi del pensiero / bolliva un caffè da paese limitrofo»); e comunque un sogno che si scontra con la propria defaillance e caduta, in un’epoca in cui, essendo tutta la realtà evaporata nel “virtuale” dei circuiti telematici, gli uomini sono sempre meno capaci di sognare e, nello stesso tempo, sempre più “fantasmatizzati” (sicché, recita La resa dei sogni, «si vedono i senza sogni / navigare nell’irreale»). Dunque, il nulla: il crollo di ogni Senso monumentale (con la maiuscola), cui Riviello ha sempre mirato attraverso le sue collane di omofonie e di calembours — perché, se lo humour resta  l’unica ancora di salvezza, è chiaro che i Valori se sono andati da un pezzo — adesso viene in primo piano a enunciare il suo finale di partita, e si traduce in una concatenazione (oh, assillante filastrocca!) di vuoti assoluti: «Un infinito fatto di infiniti niente / quantificati al nulla. / Sempre più prospettive / d’essere infiniti / perché finiti nel nulla. / L’eterno nulla / ci eterna e niente / può annullare l’eterno nulla».
Ma il vero e profondo “nodo” su cui si costituisce questo testo è quello enunciato senza infingimenti dal titolo: Plurime scissioni. È la divisione, l’andare in pezzi, la frammentarietà dell’io da cui tutti siamo pervasi in questo torno di tempi. È una pluralità psichica (ma anche corporea: non dimentichiamo le polemiche sulla donazione di organi, gli espianti, ecc.) che ha un lato intrinseco e uno estrinseco. Da un lato, la pluralità emerge da dentro ed è positiva, perché l’io che noi siamo è fatto di tante parti che è riduttivo poi restringere all’uno, all’unico «io sono» imposto dal ruolo sociale; ma dall’altro lato, la pluralità è imposta dall’esterno (dai messaggi dei media, che fanno appello in noi a tante persone diverse, per vendere al medesimo consumatore tutta la gamma dei prodotti; dalla tecnologia, che pretende attenzioni e saperi specialistici e differenziati; dall’economia, che vuole flessibilità e adesione al continuo cambiamento) e quindi è subita negativamente, con conseguenze patologiche, che producono, alle somme, come compensazione all’insicurezza, il rigurgito dei vecchi fantasmi.
Ecco, la poesia di Riviello in quest’ultima raccolta, si direbbe entrata nella sua fase “cubista” (non a caso una sezione è intitolata alle Demoiselles d’Avigon), proprio perché si dedica ad affrontare la spezzatura dell’io, non negandone l’esistenza, ma facendone scaturire in testi da manuale i modi della distorsione, dello scarto, del dislocamento. E vediamo, appunto, Dislocamenti: «Si vive da acrobati nelle scissioni plurime / saltellando qua e là ondivaghi a caccia / di parti implose e finite nei recessi infiniti / d’inconsci di tutti i tipi e parti esplose / disseminate e visibili ma inarrivabili / per la loro folle mobilità / nell’area della ritrosia». Con il che è ben trattata la nostra follia quotidiana e il gioco delle parti che basta un nonnulla (un incontro sbagliato, un contrattempo o che) a dislocare diversamente. E ancora: «Siamo scissi da ogni parte», affermano in apertura Le forme ellittiche. E il testo con l’altro titolo emblematico di Puzzle: «Siamo “puzzle”, / ci ricomponiamo casualmente, / lo schema a monte preordinato»; terminando, infine: «La vita ama collages». Così procede lo smontaggio dell’io individuale e collettivo (parafrasando un titolo di Woody Allen, sembra qui di assistere a un Decostructing Vito); così si entra nell’analisi dell’identità e nella sospensione delle identità “fisse”, oggi spesso tragicamente date per scontate e rimesse in campo come bellicose corazze (un po’ troppo monumentanee, direbbe il nostro autore). L’ironia dei puzzles che noi siamo (che giunge a dire: «Quale segmento di te / mi giungerà?») non è poi tanto un’ironia leggera e indifferente, secondo i dettami di un abusato postmodernismo, ma viene adesso a tingersi di una “asprezza” piuttosto insolita in un autore classificato per comico. Per forza, dati i tempi: sull’ultima parte del libro si allunga l’ombra inquietante della guerra cosiddetta “umanitaria” e delle armi cosiddette “intelligenti”; e l’epigramma diventa slogan: «Puliamo con la pace / questa sporca guerra»!
Certo, oggi, dice giustamente Riviello, la poesia è sola. «La poesia è sola. / In mezzo a un campo sterminato di ex», cioè di transfughi e di trasformisti, pronti ad adeguarsi alla legge del mercato. La poesia è sola, certo: ma non soltanto perché i poeti sono rimasti soli (non hanno mezzi, non vengono più pubblicati o i loro libri non hanno pubblico; collaborano poco l’uno con l’altro e lavorano ciascuno rintanato nel suo buco…); soprattutto perché la poesia è l’unico linguaggio che abbiamo — in questa stretta storica — capace di contraddizione, capace cioè di tenere in considerazione le “due parti” da cui è composta qualsiasi realtà («Non può mai essere intero / il paesaggio perché le parti / s’alternano sempre / una per volta»). Gli altri linguaggi che ci circondano, invece, negano la contraddizione e la parzialità: sono media “totalizzanti”, assorbenti, che ci attraggono a vivere completamente dentro di loro (la Tv o Internet offrono ai loro utenti qualsiasi cosa possano desiderare, a tempo pieno) La poesia no; è un linguaggio sempre più consapevole della propria insufficienza. In questo è un linguaggio speciale, ma pronto a ridere della sua stessa condizione “straordinaria”.
Lo sperimentalismo in chiave parodica di Riviello si è sviluppato e continua a svilupparsi lungo questa tendenza.

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