STEFANO DOCIMO

Diciamolo forte e chiaro: Stefano Docimo è un autore importante, un intellettuale a tutto campo, con una vivissima intelligenza e una acuta sensibilità letteraria e linguistica. Ha pubblicato poco? Ma questo non già per insicurezza ‒ aveva sicuramente le idee ben chiare su cosa fare e da che parte stare nel campo della scrittura ‒ e neppure per riservatezza caratteriale; semmai per un eccesso di autocritica, in quello che egli stesso definiva il “corpo a corpo con le parole”; ma più probabilmente ha giocato anche l’idea che l’approdo definitivo, la scelta più rigorosa della massima ribellione fosse il silenzio ‒ punto di vertice della crisi novecentesca.
Così egli l’attribuisce a un suo personaggio: 

Non voleva fare questo regalo al mondo, non voleva concedersi al grande teatro della storia, non per pudicizia o per una forma invalsa di protervia, ma per pura idiosincrasia o, per meglio esprimere il concetto, per perversa idiozia, diciamo per dispetto. Anche se il dispetto lo faceva evidentemente solo a se stesso. Ma tant’è. Aveva dunque deciso di non parlare.

Così, dopo aver esordito molto giovane su “Marcatré” come poeta visivo, Docimo avrebbe cominciato a pubblicare le sue poesie solo negli anni Ottanta, che sono anche il periodo della organizzazione di incontri molto stimolanti nello spazio dei “Magazzini Generali”. I titoli sono Ponti d’oro (il Ventaglio 1985), seguito a poca distanza da La città di Liebeshandel (Hetea, 1987; anche se una ricostruzione filologica della sua opera probabilmente porterebbe a modificare queste datazioni). Per ora stiamo ai dati ufficiali: la partenza è in una misura compositiva breve in cui l’esperienza della contestazione va a rarefarsi e a disseminarsi, un po’ come la stessa parabola rivoluzionaria di quegli anni:

Così risorgimentali e caustici
si erano sparpagliati gli studenti
chi tornandosene a casa con un graffio
chi pestato alla questura centrale
chi in un bar del centro o in una bettola.
Chi a casa di compagni e chi da ultimo
al Regina Margherita con la schiena rotta.

Ben presto però la scelta stilistica opterà per il verso lungo, di largo respiro, di incontenibile flusso verbale. Così il verso si sarebbe avvicinato alla prosa e spesso si sarebbe trovato mescolato alla prosa vera e propria, senza soverchie distinzioni. Non più poesia e racconto, ma ‒ in qualunque modalità ‒ scrittura, ovvero ritmo, ritmo incalzante, un battere di “piedi” (anche nel senso nobile della metrica antica che ritorna, più o meno mascherata, nella fase di fine Novecento). Questa misura smisurata avrebbe caratterizzato le prove migliori di Docimo. Ecco il veloce esempio ‒ da un testo del 1993 (De temporum tristitia) ‒ di una terzina che si può scandire come una octopodia:

marciscono inabili narcisi sbiancati da cipigli ormai privi di glifi
in tortuose mascherate limitrofe a fumose ruine per altro sconnesse
prive di bulbo e valore tonale di facile e intenso grigiore aurorale

In questo assetto avrebbe imperversato una sorta di “demone barocco”, portandolo a riesumare il linguaggio obsoleto (una curiosa avanguardia che, contro il depauperamento dell’espressività, si rivolge alle parole perdute), a operare senza remore nel senso della mescolanza linguistica (ibridazione, contaminazione, eterogeneità testuale), prediligendo la frammentazione (evidenziata talvolta da barre o da perentesi), e affondando nei temi della corporeità materialistica e trasgressiva, di marca rabelaisiana ma più ancora folenghiana. Vedi il Ribaldus, che alterna latino maccheronico, italiano, dialetti e vari materiali allotrii, quasi da grammelot, come per esempio in questa sestina:

contrabasso goliardorico e nespole di guardia
anglosassone affastoiato sopra le lanterne abbere
piscio di comasca allegra pei scorrattavoli della
beceria nostralpa in tutta smappa de licorne
colendissima in borrea sciumana che s’arrischiasse
nu poco all’umbra scotennata priapeschi odissei

Un’opera magmatica che verrà riassunta e condensata nel libro più tardo e riassuntivo, Corpo del testo assente (2015), una antologia personale e nello stesso tempo un rilancio dell’ipotesi poetica dell’autore. Che però è soltanto una selezione, una punta di iceberg. L’opera di Docimo resta in attesa di precisa sistemazione e di recupero dei testi dispersi o inediti.
Per ora, vale la parola critica di Mario Lunetta che ha accompagnato questa poesia nelle sue varie apparizioni e ne ha colto il nocciolo fin dall’inizio, così esprimendosi nella prefazione a Ponti d’oro:

Ecco allora l’inseguirsi concitato delle allitterazioni e del­le antifrasi in un gioco serrato di metafore senza clamore: ec­co la centralità del ritmo, che ha ormai toccato una sua au­tentica libertà da qualsiasi impaccio ideologico o da qualsiasi moralismo predeterminato. L’ideologia è tutta incorporata nel dettato, che ne buca costantemente la parete opaca per aprir­si spazi di grande autonomia. La politicità della poesia di Docimo non ha più bisogno di proclamarsi, agisce ormai dentro lo stesso percorso del suo linguaggio: per allusione, per alle­goria, per elegante disegno araldico (…). La sua vis polemica non ha più bi­sogno di chiamare in causa l’immediata datità sociale, ma scarica con sottile malvagità il suo vetriolo su emblemi molto inventati (malgrado la loro innegabile riconoscibilità) del Banale Chic Contemporaneo (…): e ciò che la fa da protagonista è la lingua del poeta, che assaggia e tormenta tut­te le imprudenze di un eros urbano molto frantumato, impos­sibilitato a sviluppare una sua continuità. (…) e la forza di questo giovane e dotato autore consiste anche nella sua capacità di negarsi a ogni richiamo viscerale e intimistico, per rispondere alle più diffuse sollecitazioni della scrittura in versi della sua genera­zione con un passo consapevole, tutto impegnato nell’«og­gettivazione» dell’esperienza, nell’ironizzazione anche aspra — in una chiave che non mi pare scorretto definire materiali­stica — di ogni divinizzazione delle mitologie del Soggetto.

Ma non va sottovalutata anche l’opera in prosa (anzi, è forse quella che dovremo guardare con maggiore attenzione). Parlo di Tratto di scena. Flugfly (Dismisura, 1986), un vero e proprio antiromanzo. Ci troviamo dentro una pagina senza respiro, nella perdizione di una virgola che non vuole mai cederla al punto. Testo con personaggi, ma con ruoli indefiniti e rapporti intricati (un padre, un figlio, forse), con tensioni erotiche (tanto che vi ha parte l’ermafrodito). Semmai, il personaggio «mistico dell’appetito» che inaugura una nuova era attraverso un «peto grande» è l’equivalente della pantagruelica agglutinazione del testo stesso; ché il vero protagonista è l’enfiagione del linguaggio, il partire per la tangente delle elencazioni, delle interpolazioni, degli inserti citazionali, siano essi destinati alla sorpresa oppure alla parodia (come spesso accade ai brani in latino). In un andamento per scivolamenti da una materia all’altra, da un punto di vista all’altro, tanto che il testo si trova fondamentalmente in stato di stallo narrativo con sarabanda di digressioni (memorie, analisi tecniche, passi di cronaca, metalessi e quant’altro). La confusione delle voci è totale e comprende quella del narratore, che finisce sciolto nel linguaggio, in mezzo a plurilinguismi (Whycur?, Whereoù?), neoformazioni, parole valigia e simili.
Non posso dare qui che brevi (e perciò parziali) campioni. Questo dalla parte inziale con una frase praticamente infinita:

L’impazienza raggiungerà il suo limite naturale, dopo il quale, le tenaglie sul tavolo saranno da riporre nel cas­setto, le pinze d’acciaio sul tavolo operatorio, ricorderà con evidente sussulto, fiumane di gente felice, la spina telefonica sarà stata staccata e Fido ringhierà con evi­dente disinvoltura, la pellicola trasmetterà impazzita l’ultimo messaggio alla nitroglicerina, si spegnerà in sala l’ultima luce con evidente mestizia e la maschera poserà nuda, aggirandosi, di quando in quando, tra i piedi della platea, con evidente voluttà, la platea attenderà innervo­sita, la donna dichiarerà al pubblico la sua stanchezza matriarcale, il pubblico la impiccherà, con evidente sa­dismo, Fido infatti ringhierà, al collo il diadema vinto al concorso di bellezza canina vibrerà impazzito, la folla urlerà senza muoversi dalla strada, urlerà verso il vetro della ditta spettabile un urlo tra i molti si spegnerà in un gorgo vicino al tombino, sembrerà non avere confini, sovrasterà le case svolgendosi senza mistero, la monaca vestita a nozze riparerà dietro un albero secolare, un signore con barba e cappello fumerà il sigaro davanti al piatto del giorno, la porta vetrata del ristorante si schiu­derà lasciando l’aria settembrina scorazzare tra i tavoli, uscirà un cameriere sorridente dagli occhi slavati, dal parapetto l’operaio di turno dell’impresa trasporti sog­ghignerà solitario e soddisfatto, stringendo tra le braccia la corda sottratta al proprietario Camone per l’imballag­gio delle materie prime vetrificabili, il cane annuserà dietro l’albero, l’aria settembrina ruoterà nel trambusto di negozi, stradeferrate, misteri, olocausti, con evidente gaiezza e sberleffi, dietro al collo del signore con barba si assommerà un evidente lombrico capolinante e affa­mato, nell’ascensore la vecchia signora avrà terminato i suoi bisogni e il giovane acconsentirà a lasciarla poggia­re aristocraticamente, ricaricherà l’orologio a molla e controllerà il mazzo di chiavi nella tasca della giacca, l’insonnia provocherà la fuoriuscita del campo onirico, accadrà la squilla, le scatole e i sigilli saranno sul tavo­lo, mancherà il settimo, chi è degno di aprire il libro e di discioglierne i sigilli? l’orologio ruoterà alla parete priva di ormeggi, la folla disciolta affluirà ai cancelli della fabbrica, il signore barbuto s’identificherà con la lista e ritornerà sui suoi passi, timbrando il cartellino di chiusura. 

Uno dalla parte centrale, basato sulla catena omofonica:

Ora buchi bianchi antichi, solchi ricchi di giunchi stanchi, fuochi ciechi come sacchi, branchi di sporchi fichisecchi, giochi di archi con pochi e fiacchi falchi, fanta­stichi domestichi e cuochi pubblici e angelichi nei bo­schi, guardinghi dialoghi tra asparagi e astrologi, aghi lunghi nei larghi alberghi, intrighi e sughi di funghi, fan­ghi e monache antiche e amiche, poche formiche e ma­sche nelle pesche vasche della magnifiche sporche poeti­che bianche maniche di cuoche e oche, le nostre amice dalle gambe lunge, senza piaghe saranno le sue opere biece, force di parchi meddechi dagli umili becci traspa­renti e blanci antisi medesi griesi, negli arbegi ortige nei bisci dai beci porzi monesi stangi.

E un terzo è la sarabanda linguistica del finale, guanto di sfida a Joyce con citazione, non a caso, dell’inarrivabile Finnegans wake:

spondmoi Camonos bisdextruxi componenti iamiamiam scriteriati merdosi vendicatiocai in dupl in ferquid loc sub extimation quali tunc fun sic, tamen si nos exinde auctormoi nec defensorsolus quesum non fu, licentia ha­bzo singhiozs exinde aggredii, querimoni fa, responrosp redd, fin pon, mod omn vo amamamamam defens cum cartulista vel qualiter iuxta propria principia legem meliused potueritis, qa in tal ordin hanc cartul Rudolf notari apostolcorpus dis, bere rogavi, questo è sanguine del mio, actum in riverrun de arno, prop ecc et monasterio iamiamiamiam crispti di Carri, san pa, grandoooooturca­craoooooroot, rutilante rutto di Cam, ruzzolantissimo ruzzolio dell’ubriachesco stombaco di Barile, Esperia e Nestore dormono, Camone resta solo, si alza in gran ro­more di sedia, traballa tutta la stanza, tentenna, solleva la coppa di vino, dormono, si rivolge alla platea imma­ginaria.

Sebbene non mi pare che il termine avanguardia gli suscitasse grandi entusiasmi, non era certamente di tipo malleabile il suo rapporto con il lettore. Così egli scrive:

Procedi, adunque, e non ti molcere. Da me altro pretendere non puoi, se non l’ascolto. Le parole tu ammucchi, intrecci, davanti ai miei occhi, e da te tutto ciò m’allontana. È come un incendio. Più a me tu vuoi accostarti e più m’allontani. Tra noi rimarranno soltanto muraglie verbali.
(In viaggio)

E veniamo per l’appunto alla sua attività critico-teorica svolta per un buon periodo sulla rivista online “Reti di Dedalus” (2006-2014) ‒ e che poi Marco Palladini ha raccolto in un insieme ancora pressoché inedito. Concludo con uno stralcio dalla introduzione che avevo a suo tempo preparato per la pubblicazione in volume. Scrivevo dunque: l’assunzione del discorso teorico non deve far pensare a un autore issato su trampoli a indicare la strada giusta: niente affatto, niente di prescrittivo, niente di più lontano dall’interesse e dall’atteggiamento di Docimo. Tant’è vero che in questi scritti la teoria non esiste mai allo stato puro: essa è sempre richiamata attraverso il passaggio nei testi altrui e quindi nella forma “secondaria” del discorso critico, in modo da presentarsi sotto le mentite spoglie di innocue recensioni, come se l’unico scopo fosse quello di rendere noti dei testi appena pubblicati o di consigliare delle letture mettendo in bella copia le proprie. Non è così, l’esercizio della critica è condotto da Docimo nel pieno senso del termine, che non indica soltanto un’attività, ma anche la presa di distanza di uno scomodo giudicare controcorrente. Di qui l’affrontamento delle formule alla moda e lo sforzo di cogliere i motivi di alcuni fenomeni sintomatici come, ad esempio, il ritorno della “forma-manifesto”, in una istanza polemica che si scontra con le parole d’ordine più celebrate.
L’aspetto che più colpisce in questi scritti è la continua ibridazione dei livelli di discorso. Se lo spunto è dato dalla critica di un oggetto particolare, questo oggetto però non è indagato soltanto in se stesso; subito viene confrontato con il livello generale di discorso, chiamato a rispondere sul fronte della teoria. E questo anche nel caso che si tratti di un testo poetico, la cui reazione estetica, quindi, è espansa secondo tutta la gamma delle relative responsabilità culturali e – con le opportune mediazioni – politiche. Dunque, la prima mossa è quella di un passaggio dal particolare al generale; ma la seconda mossa, dialetticamente, ritorna al particolare, anzi, al singolare: ciò sta nell’uso dello stile, perché Docimo elabora un linguaggio vivacissimo, denso di immagini, fitto di citazioni che vanno ben oltre quelle evocate dal testo in oggetto, sono fughe per la tangente, inserimenti repentini, flash fulminanti, con suoi usi citazionali assai singolari che rendono il testo critico-teorico testo a tutti gli effetti. Un testo torturato, certamente, attraverso tutta una serie di interruzioni (i capitoletti, gli esergo, le note fittissime), ma anche felicemente proliferante e originalmente creativo.

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