SANDRO SPROCCATI

La scrittura di Sandro Sproccati inizia negli anni Ottanta del Novecento con un piccolo libretto, edito nelle edizioni di “Tam tam”, quindi nell’orbita della prosecuzione neoavanguardistica di Adriano Spatola. Ha però, già in esordio, un timbro suo, molto originale. Quindi, se alcune dislocazioni sulla pagina fanno pensare a un intento “visivo”; e alcuni esperimenti sembrano rasentare la lingua inventata, o zaum; e se il titolo Enterafasiche e altre di dubbiafasia (1983) rimanda chiaramente all’afasia, accanto a questi caratteri prettamente d’avanguardia, si nota anche una certa ripresa della lingua del passato, e anche delle forme del passato, magari concepita nello “spirito della falsificazione”. Questo è il carattere di un’avanguardia diversa.
Non a caso, poco dopo, Sproccati va a far parte di quella paradossale avanguardia con lo sguardo rivolto all’indietro che riprende le modalità “superate” e perfino le forme chiuse in funzione contestativa, da un lato come riprovazione dell’impoverimento linguistico, dall’altro con sottolineatura ironica del dislivello temporale e quindi dell’improprietà della scelta espressiva. Risultando vicina al postmodernismo citazionista, ma distanziandosene radicalmente per la posizione contraria alla logica di mercato e l’indifferenza al piacere del pubblico medio.
La raccolta successiva di Sproccati, La via del solito impedimento (Anterem, 1987) è il pieno sviluppo di questa tendenza e infatti porterà l’autore ad essere incluso nella antologia della “Terza Ondata” (1993; precisamente nella sezione “L’allegoria dei modelli”) e ha risultare uno dei principali rappresentanti di quella stagione. Carattere della raccolta non è soltanto il rapporto “disarmonico” tra passato e presente, ma anche (probabilmente in rapporto con quella discrasia) la dialettica tra coerenza e dispersione. Nel senso della coesione testuale va tutta la ricerca di legami sonori, di ottime paronomasie («more morte», «crudi / credi!», «per aspera ad austria»), soprattutto di strette catene sonore («sono due facce / di feccia / di foca», «perora per ora / perpetua /pedina», «in finga di lingua longa»), anche di rime (però rade, non regolari, talvolta interne).
Piuttosto, l’espediente tradizionale più utilizzato, fino a sembrare quasi obbligatorio, è l’enjambement, che non è tanto un fattore d’ordine, quanto di ripresa e di rilancio. Così la scelta del lessico, tirato verso il plurilinguismo e il recupero dell’obsoleto, è nettamente debordante e corrisponde a un ritmo che è di norma eccedente alle misure metriche. Tranne, è vero, nella sezione dei sonetti (non a caso privilegiati nella selezione della Terza Ondata); sottolineati per altro con una sorta di poetica in versi:

Sortir sonetti mi soddisfa assai
poi che ogni volta che ho ceduto a farlo
intriso al mio silenzio un raro suono
si propalava nello spazio bianco
o periplo che non compiei giammai
tra casi posti in dubbio o tosto tarlo
distillator di squarci d’abbandono:
come accidiosa dico per lo stanco
brio acceso nell’infliggere dolori
anche tu vendicatrice dei ritorti
immaginari sorti e cedi al vanto
in verità stregato che di fuori
preme vedi esitando a ricondurti
là dove attende il mio tripudio o schianto.

Come si vede, una pulsione ritmico-sonora che però nulla concede al nostalgico ritorno alla regola. Se tende al barocco («Barocche son le ligne che arrapinando / seco, e barocchi o turpi i bruchi figurati») è però nel senso di un iperbarocco, una ripetizione con colpi di coda, con la consapevolezza che «sia rilievo del solco di uno scarto / con rima verso metro e quanto è invalso / a interagire in vieta convenzione / sia incanto eccelso che produce infarto».
Nella nota conclusiva, l’autore precisava, a scanso di ogni equivoco: «aggiungo solo che tutti gli espedienti di una maieutica poetica, ovvero atti a propiziare l’ipostasi dinamica di una parola “che si fa”, sono da ritenere, in tale prospettiva, più che leciti; fossero anche, come qui spesso avviene, coercizioni (liberatorie!) di natura metrica, e prosodica, e rimaria. O lietissimi funambolismi sintattico-lessicali: non tanto risultati d’invenzione in sé, ma stimoli al pronto rivelarsi d’altro, dell’“altro” che germoglia, di “ciò” che inter-viene». Col che il recupero è declinato in «afflato sovversivo».
Costrizioni “liberatorie”, si diceva, che invitano il linguaggio a parlare da sé. Il soggetto è spesso e volentieri anonimo e sottinteso; si trova semmai l’indicazione della «dedalolatria dell’io», quindi molteplicità e dispersione. Insomma, che il percorso del senso rimanga legato a una logica (o illogica) surrealista sarebbe facilmente dimostrabile. Non però senza che s’impenni in una modalità di reazione-aggressione: infatti, se la poesia conferma la sua radicale alterità, non può mancare di offendere il senso comune del suo presunto destinatario e quindi esplodere contro. Si tratta di invettiva, già nelle Enterafasiche: «‒ Fanno i tonti / si divertono, poveri cristi / (così dicono) e ci fan sopra / i loro lerci conti (…) È una fregata, ecco / semplicemente. / Varcata la soglia / di tanta stupidità / vi accorgerete». E poi, nel Solito impedimento, si veda questa reprimenda globale: «Occidente tue sorde trame involgono / e a cappio agghindano obnubando l’orbe / di perfidia trina, lurida danza / trono di sapienza deleteria / è il morbo scelere che non ti sazia».
Più ancora negli anni Novanta, il testo poetico di Sproccati ‒ anche in relazione al tentativo di dar vita a un gruppo di antagonismo poetico e alla partecipazione ad iniziative di mobilitazione (Poeti contro la mafia, Poeti contro Berlusconi e simili) ‒ punta a riversare l’eccedenza linguistica in avversione alle figure del potere. In questa produzione, confluita poi in Cum praesumpta creatura, senza dimenticare la prosa dilagante e scatologica di Pampamphlet, il testo acquista così una durezza, un’asprezza, una petrosità, oserei dire dantesca, come in questo esempio:

Che merda fa di quel che si trangugia!
— insonnia che mi coglie di sovente
nel ripensare i desti fini avari,
i destini in cui il mondo si pertugia
— se d’umani non è alimento mente
ma cupidigia e affanno di denari.
Allor tre rime fesse e sei versetti
son di una dura digestione effetti.

Si può dire, in sostanza che la corruzione non è vista da Sproccati semplicemente come una deviazione, una patologia della società civile, ma esattamente come il carattere stesso, profondo, endemico e quindi incurabile, del sistema capitalistico. Questo, però, come si si vede dalla parte finale del testo sopra citato, comporta l’avvertimento di una assoluta sproporzione e quindi la consapevolezza di come il discorso dell’efferatezza più scatenata (e in esso il recupero del passato come corpo contundente) abbia poi il risultato infimo e risibile delle “tre rime fesse».
Dalla dialettica di “tripudio e schianto” (nel sonetto precedentemente citato), si può arrivare al massimo ripudio che corrisponde al silenzio, oppure magari al concentrarsi nell’intervento prevalentemente critico; si veda l’opera saggistica di Sproccati, dedicata soprattutto alle arti figurative (cito qui La concreta utopia, 1994, sull’arte d’avanguardia in Russia; e Per una logica della pittura, 2006), che arriva fino ai saggi rigorosi e taglienti di Contracroniche (2017), dove troviamo questo eloquente Cartesio modificato: «Cogito ergo insānus sum».
Scrittura in esilio. Del resto, già nelle Enterafasiche, Sproccati scriveva: «Eclissarsi tacitamente / sparire».

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