Sandro Dell’Orco, Delfi (Edizioni Hacca, 2005)
Romanzo intricato, a più livelli, denso di risvolti e di rimandi, Delfi di Sandro Dell’Orco si distacca di molto dal panorama piatto e standardizzato delle scritture narrative odierne. Il lettore si prepari a una inesauribile serie di sorprese: l’indicazione del titolo, che sembrerebbe promettere un menu storico o, quantomeno, turistico, è subito scansata e ci troviamo di fronte a una scena beckettiana con il soliloquio di un narratore che ci parla da un mondo intermedio tra la vita e la morte. Egli ci racconta di Delfi, sì, ma di una avventura erotica davvero improbabile, vissuta come un sonnambulo nelle viscere del santuario di Apollo. Subito dopo, però, la prima persona viene abbandonata, e siamo immessi nel bel mezzo di un romanzo giallo dove un investigatore (tale Egon Hereafter) è chiamato ad indagare sulle tracce dell’intrusione, che è stata solo parzialmente e male rilevata dagli strumenti di sicurezza. Ma dalla sua inchiesta poco emerge, ed egli stesso cade vittima del fascino femminile, in particolare della donna sospettata che, chiamandosi Castalia, poco promette però al soddisfacimento. Gli indizi, semmai, portano l’investigatore verso… se stesso. Per di più, non ci si può muovere a Delfi senza incappare nel Controllo, una società segreta che manovra tutto e tutti, non tollera deviazioni, ma nemmeno gradisce la pervicacia del detective, tanto che alla fine decide di allontanarlo e di ucciderlo. La conclusione ci riporta da dove eravamo partiti, alla larvale e provvisoria esistenza (o inesistenza) di un fantasmatico qualcuno nella intercapedine del “nulla”.
Curioso: ho tentato un riassunto. Ma proprio perché il libro di Dell’Orco è sostanzialmente “irriassumibile”. Non solo le vicende non sono chiare e non vengono chiarite, i personaggi si moltiplicano e si sovrappongono, i fatti stentano stare in piedi, ma ci si sente il “alto mare” anche perché il testo viene attraversato da una serie di generi letterari le cui regole (e relative presupposizioni) si intersecano e interferiscono tra loro. Il giallo dovrebbe cercare la verità certificata, ma non trova le risposte giuste e la stessa figura dell’ispettore perde i connotati inquisitorii per assumere invece il ruolo della vittima, se non del colpevole, attraverso un inquietante gioco di specchi. Non c’è risposta e questo è significativo perché l’ambientazione invece sarebbe quella della “madre di tutti gli oracoli” – e non sarà un caso che la copertina del libro scrive il nome della località in minuscole: delfi. Dunque, anche la suggestione mitica della antica Grecia dimette a sua volta i tratti sacrali e il testo si inerpica, piuttosto per la strada del fantastico, cioè di un soprannaturale possibile ma tutto da dimostrare. Potremmo pensare, allora, di trovarci all’interno di un sogno e il tratto onirico è confermato da varie scelte stilistiche di Dell’Orco: molto spesso la vicenda appare strana oppure è sottoposta a interruzioni o a slittamenti. Per esempio, la figura femminile tende a moltiplicarsi e il richiamo erotico a dimostrarsi delusivo (c’è un ostacolo che si frappone, la frustrazione è in agguato: l’unico soddisfacimento c’è già stato nel vortice misterioso del primo episodio e il problema diventa quindi l’impossibilità della ripetizione). Un romanzo psicoanalitico, certamente, nei suoi “materiali”, specialmente nelle emergenze dell’eros, che tuttavia rimane enigmatico (per forza, per contagio con il luogo dei responsi oscuri, dove una custode si chiama Sibilla…). E spiraliforme ne è la struttura, affetta da una radicale non-coincidenza. Ancora sull’onomastica dei personaggi: il protagonista ha nome Egon, chiaro che l’interrogativo riguardi l’identità, l’analisi dell’io; mentre forse il cognome Hereafter, se lo decodifichiamo con l’inglese, significa che la ricerca arriva “qui”, ma sempre un po’ “dopo”.
Inoltre, come accennavo, più ci si addentra nei meandri del libro e più prende corpo l’assillante presenza del Controllo. Come già nel romanzo precedente di Dell’Orco, I benefattori, si fa strada l’ossessione dell’alienazione, la coscienza di una libertà vigilata e della impossibilità di sconfiggere il “sistema” capillare di un nemico onnipotente. Eccoci dunque pervenuti, in questo defilé di generi, nell’area dell’immaginario nero della distopia. Quale mondo peggiore di questo, ancor più opprimente che l’Ingsoc di Orwell, dove il potere almeno era ufficiale, mentre qui è segreto (come la mafia), quindi inattingibile, e gode per giunta di un consenso universale, senza neanche bisogno di coercizione («esso non domina affatto i cittadini di Delfi, ma sono questi che, senza alcuna minaccia o violenza, accolgono in sé naturalmente, proprio come se provenissero dalla propria mente, gli ordini e i punti di vista che gli arrivano dall’organizzazione»). I gangli dell’organizzazione con cui si riesce a venire a contatto sono sempre dei bassi gradi, mentre i capi restano sconosciuti, un po’ come avviene nel Castello di Kafka. Del resto, kafkiana è l’impostazione onirica del racconto, nonché la particolare ironia che serpeggia dentro l’angoscia e che si esercita specialmente sul gioco del desiderio, regolarmente acceso e beffato. Infine, da Processo è la condanna dell’unico corpo estraneo, che è il personaggio protagonista. Ma il fatto che ci sia comunque anche un solo outsider è proprio questa la contraddizione che potrebbe minare il potere onnivoro, l’inciampo che potrebbe far nascere dei dubbi sulla sua consistenza.
Fantastico? Sì, e quindi perciò realistico: perché evidentemente quello di cui parla Dell’Orco non sono altro che i nostri tempi, la dittatura “morbida” del postmoderno, i fili invisibili delle decisioni che ci sovrastano, il consenso “decerebrante” ottenuto dai media, e via dicendo. In fondo, il gioco di specchi che il romanzo conduce (l’investigatore che di grado in grado si riconosce nel colpevole; l’esecutore della condanna che ha vissuto una storia analoga al condannato, ecc.) si attaglia bene allo stato attuale del soggetto nell’Occidente trionfatore e senza avversari. I sogni, se così interpretati, si trasformano in allegorie. Allegorico, dunque, è Delfi, e di sapore allegorico sono le sue scene “madri”, come quella iniziale nei sotterranei, oppure quella nella totale oscurità della casa sul Parnaso, dove s’incontra un rappresentante del potere che è addirittura un cadavere vivente, dimostrazione della potenza assoluta in grado persino di frenare la decomposizione del corpo, ma forse anche allegoria del “capitale morto” che domina l’economia del capitalismo sviluppato. Allo stesso modo, messo nello stesso stato contraddittorio, il narratore-fantasma che apre il testo («Non sono più nel mondo dei vivi. No, non sono ancora morto. Ma ormai non esisto più. Non ho più né un corpo né un mondo») potrebbe fungere plausibilmente come allegoria dello scrittore attuale: l’assenza dell’uditorio che lo perseguita e la povertà dell’esperienza che costringe la scrittura a partire dall’unica realtà “mentale” dell’immaginazione.
Un libro insieme denso ed espanso, dotato di una sua scioltezza narrativa, ma indubbiamente problematico e sorretto da una sicura travatura teorica.